Brigitte Bardot e il film Il disprezzo: la donna che creò la Dea tra eros, cinema e morte

La morte di Brigitte Bardot, avvenuta oggi, impone una considerazione. La sua scomparsa a 91 anni non chiude soltanto una carriera o una stagione del divismo europeo: segna la fine di un’illusione. L’illusione che il desiderio possa essere innocente, che lo sguardo non comporti conseguenze, che l’amore e il lavoro non si contaminino mai. Bardot è stata la prima a dimostrare che il cinema, quando guarda una donna, firma sempre un contratto morale. E che quel contratto può essere rifiutato. Il luogo esatto in cui tutto questo diventa evidente è Il disprezzo di Jean-Luc Godard. Non un film su Bardot, ma un film contro ciò che Bardot rappresentava nell’immaginario collettivo. Godard prende il corpo più desiderato del mondo e lo espone non per celebrarlo, ma per metterlo in crisi, per mostrarne la stanchezza, la distanza, l’irriducibilità. Ma prima di Godard, c’è Moravia. E prima ancora di Moravia, c’è una ferita reale. Alberto Moravia confidò a Enzo Siciliano che Il disprezzo, il romanzo del 1954 da cui il film è tratto, nasceva da un episodio concreto del mondo del cinema. Il personaggio dello scrittore diviso tra necessità economiche e integrità letteraria affonda le sue radici nella vicenda di Vitaliano Brancati, chiamato a lavorare all’Ulisse di Mario Camerini per ragioni puramente materiali. Un compromesso che coincise con la fine del suo matrimonio. Il disprezzo come gesto silenzioso, definitivo, irreversibile. Produzione, miti e intellettuali che parlano troppo Godard trasforma quella ferita privata in un’autopsia del cinema. Paul Javal, interpretato da Michel Piccoli, è uno sceneggiatore che accetta compromessi credendo di governarli. Ed è qui che il film si fa spietato: Javal ricorda irresistibilmente Tersite dell’Iliade, l’uomo che “molte parole sapeva in cuore, ma vane, non ordinate”. Parla troppo, pensa troppo, sente poco. Ed è per questo che diventa oggetto del disprezzo generale. Il disprezzo non è solo quello di Camille. È quello di Fritz Lang, che interpreta se stesso e difende un’idea di cinema classico, naturale, non nevrotico. È quello del produttore Prokosch, rozzo ma lucidissimo nel suo cinismo. È, soprattutto, quello di Godard, che in Javal vede l’intellettuale moderno disposto a tutto pur di riuscire. Anche a perdere il contatto con la bellezza. Le disavventure produttive del film riflettono perfettamente questo conflitto. Carlo Ponti e Joseph E. Levine volevano Bardot come garanzia commerciale, non Godard come autore. Rifiutarono il film, si opposero a Venezia, imposero scene di nudo. Godard obbedì sabotando: trasformò la richiesta di “valorizzazione sexy” in una delle scene d’amore più pure della storia del cinema. Il set fu attraversato da attriti continui. Jack Palance, che interpreta Prokosch, non parlava francese, fraintendeva volutamente le indicazioni, si rifugiò nell’alcol. Il disprezzo del film si consumava anche dietro la macchina da presa. Il rapporto tra Godard e Bardot fu freddo, distante, quasi nullo. Ed è proprio questa distanza a rendere possibile il film. Le poche sequenze dell’Odissea girata da Fritz Lang sono il cuore segreto del film. Statue al posto dei corpi, divinità che si stagliano contro il cielo mediterraneo. Eppure, nelle orbite degli occhi, sulle labbra, affiora il colore. Il classico non è morto, non è neutro, non è bianco. È vivo. Non ha bisogno di essere “modernizzato”. Lang lo dice chiaramente: Odisseo non è un nevrotico moderno. È un uomo semplice, astuto, naturale. Il moderno, semmai, è Javal. Ed è proprio questa modernità isterica a isolarlo. L’Odissea di Godard/Lang attraversa i secoli perché non tenta di essere attuale: lo è già. Nel film, il corpo sa sempre più delle parole. Camille nuota nuda. Javal resta vestito. Capri lo respinge. La natura lo riduce a una figura marginale, fuori scala. Prokosch vuole infrangere la vetrata per possedere il mare. Lang lo contempla. Javal si ritrae. È sordo alla bellezza. Ed è per questo che merita il disprezzo. Un prologo che contiene già la fine Lo si capisce fin dall’inizio. Camille è stesa nuda sul letto, la pelle attraversata da una luce rosata. Paul è accanto a lei, ma non la guarda davvero: riesce a vederle solo i piedi riflessi nello specchio. Il corpo è presente, ma già mediato. E allora comincia l’interrogatorio: gambe, ginocchia, cosce. Un catalogo del desiderio che suona già come il suo fallimento giocato sulle note sublimi della colonna sonora originale, firmata da Georges Delerue Sul fondo, il cinema guarda se stesso. Hatari! sulle locandine. Viaggio in Italia di Rossellini proiettato al "Silver Cine" del Tiburtino. L’eros incontra la cinefilia, il corpo incontra la Storia delle immagini. Nulla è decorativo. Nulla è innocente. L’Alfa Romeo rossa spider di Prokosch corre verso l’apocalisse. Si sente 24.000 baci di Celentano. Francesca Vanini traduce come se non ci fosse un domani. Le lingue si sovrappongono, ma il senso sfugge. Non sappiamo più perché le cose accadono. O forse lo sappiamo, ma non vogliamo accettarlo. La vicenda precipita lungo le scale di Villa Malaparte a Capri, monumento del cinema moderno (non a caso finito sulla locandina ufficiale del Festival di Cannes dateto 2016.. E allora tutto torna alla frase di André Bazin che apre il film: «Il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri». Il disprezzo è la storia di quando quel mondo smette di accordarsi. E Bardot resta lì, al centro, come una Dea che il cinema ha creato e non ha più saputo guardare.

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Paolo Nizza