Proteste nel mondo, quali funzionano davvero? Lo spiegano i dati

Nel 2013, quattro ricercatori hanno trascorso un’intera estate a setacciare i giornali di circa 100 Paesi per costruire un database globale delle proteste: il risultato è la piattaforma interattiva World Protests, che fornisce dati sulle manifestazioni che si sono svolte in tutto il mondo dal 2006 al 2023. A partire da quei dati, il team di ricerca ha rilevato che tra il 2006 e il 2020, il numero di proteste riportate dai principali media nazionali e internazionali è aumentato in tutte le regioni del mondo, includendo alcune delle più grandi mobilitazioni della storia contemporanea, tra cui la Primavera araba, il movimento Occupy Wall Street e Black Lives Matter. Più persone in piazza, in tutto il mondo Secondo lo studio, l’Europa e l’Asia centrale sono risultate le aree più attive, con 806 manifestazioni registrate, seguite da America Latina e Caraibi, Asia orientale e Pacifico e Africa subsahariana. A chiudere la classifica ci sono Nord America, Medio Oriente e Nord Africa e, infine, Asia meridionale. Proprio in quest’ultima regione, tuttavia, nel 2020 si è svolta la più imponente protesta del periodo: 250.000 persone scese in piazza in India contro la riforma agraria voluta dal primo ministro Narendra Modi, che fu poi costretto ad abrogarla. Gli autori dello studio avvertono che queste differenze sono in parte legate alla dimensione delle regioni: le aree con più Paesi tendono a registrare un numero maggiore di proteste, mentre quelle con meno nazioni mostrano cifre più basse, nonostante gli sforzi dei ricercatori di bilanciare i dati rilevando con maggiore attenzione le proteste interne ai singoli Paesi. “Questo aumento dell’attivismo ha superato persino i turbolenti anni Sessanta. Stiamo vivendo un’epoca di proteste globali davvero eccezionale dal punto di vista empirico”, ha spiegato alla rivista scientifica Nature Lisa Mueller, esperta di movimenti sociali al Macalester College di Saint Paul, Minnesota. Un periodo di agitazione sociale che, tuttavia, non riguarda tutte i Paesi allo stesso modo. Lo studio mostra infatti come le manifestazioni siano particolarmente diffuse nei Paesi a reddito medio-alto, mentre i Paesi a basso reddito registrano numeri nettamente inferiori. Una differenza che, secondo il team di ricerca, potrebbe dipendere sia dalle condizioni di vita più difficili, che limitano la partecipazione civica, sia da una minore copertura mediatica internazionale: le cronache locali, soprattutto se più datate, sono spesso difficili da reperire online. Ma perché si scende in piazza? Le ragioni sono molteplici e spesso intrecciate tra loro. Secondo lo studio, la maggior parte delle proteste degli ultimi quindici anni ha riguardato, in ordine, quattro grandi categorie di rivendicazioni: il malfunzionamento dei sistemi politici, la giustizia economica e la lotta alle politiche di austerità, i diritti civili e le battaglie per la giustizia globale. A livello temporale, a partire dalla crisi finanziaria del 2007-2008 si osserva un aumento significativo delle mobilitazioni, che raggiungono il primo picco tra il 2012 e il 2013, quando milioni di persone in tutto il mondo chiedono maggiore equità sociale ed economica. Dal 2016, la frustrazione per la crescente disuguaglianza, la mancanza di lavoro dignitoso e la sfiducia nelle istituzioni democratiche ha alimentato una nuova ondata di manifestazioni, spesso diventate vere e proprie “proteste omnibus”, in cui più cause si fondono in un’unica azione di dissenso contro l’intero sistema politico ed economico. Ma cosa rende una protesta davvero efficace? Secondo gli ultimi studi, tra cui quelli svolti dalla politologa Erica Chenoweth, le campagne non violente hanno avuto storicamente il doppio delle probabilità di successo rispetto a quelle armate. E uno dei fattori più decisivi rimane la partecipazione: quando almeno il 3,5% della popolazione scende in piazza, il cambiamento è quasi inevitabile. È la cosiddetta "regola del 3,5%", che però non va letta in modo troppo rigido: spesso il vero peso di un movimento si misura anche nel silenzioso sostegno di chi non può o non vuole manifestare apertamente. In ogni caso, i numeri contano. Più persone si uniscono a una causa, più quella causa diventa politicamente scomoda da ignorare e, a un certo punto, insostenibile da reprimere.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Proteste nel mondo, quali funzionano davvero? Lo spiegano i dati

Roberta Cavaglià