Trump riaccende la guerra dei dazi: tutte le tariffe dei 92 Paesi coinvolti

Nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo che, salvo colpi di scena dell’ultimo minuto, renderà operativo il piano di imposte daziarie annunciato, e più volte rinviato, negli ultimi mesi. La firma rappresenta l’atto conclusivo del percorso avviato lo scorso 2 aprile, quando Trump – in quello che aveva definito il “giorno della liberazione” – annunciò una raffica di tariffe contro decine di Paesi, motivandole con presunte pratiche commerciali scorrette. La reazione negativa dei mercati aveva costretto la Casa Bianca a una marcia indietro parziale: tre mesi di sospensione per consentire trattative bilaterali. Trump aveva promesso 200 accordi in 90 giorni, ma finora ne sono stati conclusi appena una decina. L’entrata in vigore delle nuove tariffe, prevista inizialmente per il 9 luglio, è stata più volte rimandata. L’ultimo rinvio – reso noto nella notte – fissa il termine al 7 agosto, con la motivazione ufficiale di dare tempo a dogane e autorità logistiche di adattarsi alla gestione delle nuove imposte. Cosa comprende l'ordine esecutivo sui dazi Dopo tanta incertezza circa le aliquote e la data reale di entrata in vigore dei dazi, la firma di questa notte ha diradato parte della nebbia, consentendo ai Paesi e ai mercati di farsi un quadro più chiaro dei prossimi mesi e anni. In estrema sintesi, l’ordine esecutivo di questa notte conferma la decisione, già presa ad aprile, di applicare in via preventiva e a tutti i Paesi un’aliquota base ‘universale’ del 10%. A questa si aggiungono altre aliquote, diverse per ciascun Paese, e calcolate o sulla base degli accordi effettivamente raggiunti o su valutazioni fatte dall’amministrazione Trump. L’ordine esecutivo cita un elenco di 69 Paesi e della aliquota loro praticata, in un range che va da un minimo del 10% a un massimo del 41% . L’aliquota del 15%, quella concordata dall’Ue, è anche la più comune, ed è applicata a un gruppo di circa 40 Paesi, decisamente eterogenei tra loro per economia e peso commerciale: dell’elenco dei Paesi tassati al 15% infatti fanno parte tanto l’Ue che Israele, il Giappone, l’Afghanistan, le Mauritius, le Fiji e il Chad. Poi, nell’elenco, compare un altro gruppo di 11 Paesi, di nuovo molto eterogenei tra loro, tassati tra il 18 e 20%: tra questi figurano tanto il Pakistan e il Nicaragua quanto Taiwan o i colossi della manifattura tessile di Bangladesh e Cambogia . Le cose vano persino peggio per altri partner come l’India, che a sorpresa è stata tassata del 25%; Sud Africa, Libia, Bosnia Erzegovina e Algeria, tassate al 30%; Svizzera, tassata ad un pesante 39%, Myanmar e Laos al 40%. I dossier ancora aperti Se questo è il quadro di base, però, restano ancora alcuni punti da chiarire. Il Brasile, formalmente tassato al 10%, rischia un aumento fino al 50% a causa delle tensioni politiche tra Trump e il governo brasiliano, accusato di “persecuzione” dell’ex presidente Bolsonaro. Anche l’India – finora in ottimi rapporti con Washington e che fino a poche ore fa era certa di riuscire a spuntare un accordo migliore – è stata sorpresa da un’aliquota del 25%, soprattutto per il disappunto americano legato ai suoi acquisti di greggio russo. Per New Delhi si parla già di “ulteriori imposte”. Il terzo punto riguarda Messico e Canada. I due Paesi sono, storicamente, i principali partner commerciali degli Stati Uniti. Dal secondo insediamento di Trump, però, le cose si sono fatte piuttosto tese. In particolare, il presidente Usa accusa il Messico di non fare abbastanza per fermare l’immigrazione irregolare e il Canada di non fare abbastanza per fermare il flusso di sostanze stupefacenti negli Usa . Con questi due Paesi, ai quali è tra l’altro legato dall’accordo di libero scambio NAFTA, Trump ha avuto linee di condotta molto diverse. Al Messico ha paventato una tariffa del 30%, ma concesso una proroga di 90 giorni per ulteriori trattative; al Canada, invece, ha imposto, già da oggi, tariffe dal 25 al 35%. Il quarto enorme punto da chiarire riguarda la Cina, Paese con cui, per evidenti ragioni, le trattative commerciali stanno seguendo un iter a parte. I due Paesi sono coinvolti ormai da quasi dieci anni in una durissima guerra commerciale e lo scorso aprile le ostilità avevano raggiunto livelli parossistici e i dazi toccato il 145%. Attualmente i due Paesi si trovano in un limbo la cui scadenza è prevista per il 12 agosto e che prevede imposte del 30%. Nonostante questo, però, l’ordine esecutivo di questa notte, almeno in parte, riguarda anche i beni cinesi. E lo fa, nel dettaglio, nel capitolo che riguarda i cosiddetti ‘transhipment’, ossia merci cinesi che arrivano negli Stati Uniti partendo da altri Paesi, come per esempio il Vietnam, in cui fanno tappa, per l’assemblamento finale, e che potrebbero essere tassate del 40%. Verso una nuova stagione di incertezza L’entrata in vigore delle nuove tariffe rischia di riaccendere una guerra commerciale su scala globale. In un momento in cui la crescita mondiale rallenta e i mercati sono già appesantiti da tensioni geopolitiche e crisi energetiche, la mossa di Trump potrebbe avere un impatto destabilizzante. L’inasprimento dei dazi colpisce non solo i Paesi target ma anche le supply chain globali, riducendo l’efficienza degli scambi e alimentando l’inflazione. Per molte economie emergenti – e persino per alleati storici degli Stati Uniti – il conto si annuncia pesante.

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Luciana Grosso