Le case di cura dell'Arabia Saudita per le donne che non obbediscono agli uomini

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I Dar al-Re’aya rappresentano un’istituzione nata negli anni ’60, il cui nome si traduce, eufemisticamente, con “casa di cura” per riabilitare le donne che disobbediscono alle imposizioni dei propri mariti o familiari

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In Arabia Saudita le donne accusate di non adempiere gli ordini impartiti dai mariti o allontanate dalle proprie famiglie, perché ritenute disobbedienti, finiscono in appositi centri di reclusione: i Dar al-Re’aya, un’istituzione il cui nome si traduce, eufemisticamente, con “casa di cura”. A far luce, nuovamente, sull’esistenza di questi luoghi detentivi è stata la pubblicazione di una recente inchiesta del The Guardian, che negli scorsi sei mesi, ha raccolto diverse testimonianze di vittime internate in quei centri. 

Chi sono le donne destinate ai Dar al-Re’aya

Secondo quanto dichiara il ministero per le risorse umane e lo sviluppo sociale saudita, gli istituti Dar al-Re’aya accolgono solo due categorie di donne: quelle che, secondo il Governo, necessitano di “correzione sociale” e di “rafforzamento della fede religiosa” perché “hanno deviato dalla retta via” e le minori di trent’anni in attesa di un’indagine o un processo. Tuttavia, la realtà è molto diversa. Nei centri vengono rinchiuse anche tutte le donne che sono state bandite dalle loro famiglie o dai mariti, per qualsiasi forma di disobbedienza o ribellione agli ordini a loro impartiti. Alcune sono accusate di non aver aderito a delle imposizioni, altre sono sospettate di reati. Altre ancora, invece, vi si avvicinano spontaneamente per sottrarsi da abusi e violenze domestiche, sperando di trovare una protezione. 

Luoghi di “riabilitazione”

Nati negli anni Sessanta, questi centri vengono descritti dal regime come dei “rifugi” destinati a “ragazze accusare o condannate di veri reati”. L’obbiettivo di questi istituti, prosegue il governo saudita, è quello di “riabilitare” le donne, con l’aiuto di psichiatri al fine di “restituirle” alle loro famiglie e mariti. “Non sono centri di detenzione e qualsiasi denuncia di abuso viene presa sul serio e sottoposta a un’indagine approfondita. Le donne sono libere di andarsene in qualsiasi momento, per andare a scuola, al lavoro o per altre attività personali, e possono andarsene definitivamente quando vogliono, senza bisogno dell’approvazione di un tutore o di un familiare», ha detto un funzionario del governo saudita al Guardian.

Una realtà molto diversa

Nella realtà i Dar al-Re’aya, sono a tutti gli effetti dei luoghi detentivi, all’interno dei quali le donne vengono costantemente torturate e seviziate. L’attivista Sarah al Yahia, al momento a Londra, portavoce della campagna per abolire queste “case di cura”, ha parlato con numerose vittime che ci sono finite dentro: tutte le intervistate hanno raccontato di aver subito violenze quotidiane e di essere state sottoposte a perquisizioni corporali, come dei “test di verginità” al loro arrivo o di essere state obbligate ad assumere dei sedativi. Al loro arrivo, riporta l’attivista, alle donne viene assegnato un numero con il quale verranno identificate per tutta la loro permanenza nel centro. Qualsiasi forma di trasgressione: dal rifiutarsi di pregare al presentarsi con il proprio nome, viene punita con la flagellazione. Le punizioni si svolgono spesso in modo collettivo. 

Uno strumento di controllo e punizione

Secondo diverse attiviste, riporta il The Guardian, si tratterebbe di uno degli strumenti meno conosciuti del regime per controllare e punire le donne. “Ogni ragazza che cresce in Arabia Saudita conosce questi centri e il loro orrore”, ha raccontato una giovane donna che è riuscita a scapparne e che ora vive fuori dal suo paese: “Sono un inferno. Ho cercato di togliermi la vita quando ho saputo che mi avrebbero portata lì. Sapevo cosa succedeva alle donne in questi posti e ho pensato di non sopravvivere”.

Le contraddizioni di un Paese che si dipinge progressita

Ad oggi, sono numerose le organizzazioni per i diritti umani che denunciano le brutalità di questi istituti, sottolineando come la loro esistenza sia in grande contraddizione con la volontà espressa negli ultimi anni dal principe ereditario Mohammed bin Salman di attenuare le pesanti restrizioni a cui le donne, da decenni, sono sottoposte nel Paese: volontà che gli viene spesso riconosciuta anche a livello internazionale. A questo proposito, nel 2024 l’Arabia Saudita ha ottenuto senza alcuna opposizione la presidenza della commissione delle Nazioni Unite incaricata di promuovere l’eguaglianza tra i sessi e rafforzare i diritti delle donne nel mondo: la Commission on the Status of Women (Csw).

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