Viaggio a Gaza e in Cisgiordania, dove il cibo non c'è più

Il cocomero, per i palestinesi, non è un frutto qualsiasi. Ha gli stessi colori della loro bandiera e per un periodo l’ha persino sostituita. È successo dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 e la conseguente occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, quando Israele proibì l’esposizione pubblica del drappo palestinese e molti ovviarono – si racconta – esponendo fette di anguria. “I palestinesi sono privati della loro terra e quindi della loro cultura, che è mediterranea e profondamente legata a una regione che prima era senza confini”, racconta Fidaa I A Abuhamdiya, chef e docente palestinese. “Il cibo racconta tutta la cultura palestinese e non è un paradosso parlarne oggi durante il conflitto e lo sterminio, perché, se siamo meno interessati al loro destino, è anche perché non li sentiamo così vicini. Ma la cucina palestinese è molto simile alla nostra: olio, basilico e fragole hanno lo stesso valore”, commenta Silvia Chiarantini, foodwriter italiana. Insieme, hanno scritto Pop Palestine, un ricettario che è più un “taccuino di viaggio nella cucina popolare”. In cui le ricette raccontano feste religiose e tradizioni familiari, ma anche occupazione e bombardamenti. “Cucinare, in Palestina, significa scegliere cosa mangiare, cosa importare e cosa celebrare: è un atto di autodeterminazione quando manca la libertà”. Il cibo come strumento di guerra Sul tavolo della colazione, in Palestina, si trovano grandi vassoi rotondi dove madri e figli poggiano olio, timo, olive, formaggio, pane, pomodori, e thè. Solo a pranzo arrivano la carne e le tipiche verdure ripiene. Quel modo di cucinare si chiama mahshi e vale a dire: “Se ti avanza del riso nel frigorifero, mettilo dentro a una verdura”. “Lo abbiamo scoperto a casa della signora Aziza a Hebron, dove abbiamo iniziato il viaggio, quando ha riempito delle foglie di vite con riso, carne macinata e spezie”, racconta Chiarantini. Oggi, però, le verdure di Aziza non hanno lo stesso sapore. “Molti ingredienti spesso impiegati nella cucina tradizionale non si trovano più – spiega Abuhamdiya – Ai palestinesi è vietato coltivarli, importarli e raccoglierli”. Alcuni esempi? La salvia e il coriandolo. “Ma la lista cambia spesso – continua – Certi ingredienti, anche prima del 7 ottobre 2023, non potevano entrare a Gaza se non prodotti da Israele. Penso alla cioccolata, considerata un lusso, e ai kiwi, ricchi di vitamina C e fibre. I gazawi non potevano mangiarli”. Dove il cibo non c'è più “Il pasto più importante per noi palestinesi è quello del venerdì. A colazione si mangiano pita, falafel, hummus e insalata. A Gaza il piatto tipico è il fatta, a base di pane fritto, riso con burro, carne arrostita e guarnito con pinoli tostati”. A raccontarlo a Silvia Chiarantini durante il suo viaggio è Majd, una donna nata nel campo profughi di Jabalia nella Striscia e ora fuggita, dopo aver perso in alcuni bombardamenti del novembre 2023 familiari, amici, compagni di scuola e vicini di casa. Prima della carestia e della concentrazione della popolazione in affollatissime tendopoli, a Gaza si mangiava molto pesce e si coltivavano fragole, acquistate in tutta la Palestina per solidarietà nei confronti di una popolazione già isolata. “Ora tutto è cambiato lì – spiega Abuhamdiya – Per quanto tempo si potrà andare avanti a cibo in scatola? Con il tempo gli organi non funzioneranno e le persone si ammaleranno”. La cucina gazawi, in realtà, pur fondata su una terra fertile , da tempo si era adattata ai giri di vite su importazioni ed esportazioni optando per ricette più semplici e dipendenti dai prodotti israeliani. “Ma le cose sono cambiate anche per noi palestinesi in Cisgiordania – commenta Abuhamdiya, residente a Ramallah – perché un chilo di carne costa 95 shekel adesso e per molte famiglie non è più sostenibile. Senza contare l’impatto dei coloni”. “Un signore a Betlemme – replica Silvia Chiarantini – ci ha raccontato che un muro ha separato la casa dai suoi olivi e adesso che è anziano, per andare a coltivarli, deve chiedere ai soldati del checkpoint di liberare il passaggio”. Aria di feste “Per noi appare come un cortocircuito, ma la cucina palestinese è perlopiù una cucina di festa perché sono soprattutto matrimoni e celebrazioni religiose a radunare tutti attorno alla tavola”, spiega Chiarantini. Ed è chiaro a Nablus, la città dei dolci nel nord della Cisgiordania. Ovunque, si legge in Pop Palestine, ci sono venditori ambulanti e laboratori. Gli odori sono quelli della mandorla, della rosa, degli agrumi ma anche dell’estratto di neroli, “che a noi ricorda l’aroma della pastiera napoletana”. I ghrabyeh, semplici biscotti al burro “che si sciolgono in bocca”, dividono le due autrici del libro. Abuhamdiya sostiene che, come per tutte le ricette della cucina palestinese, non serva misurare le dosi. Ma Chiarantini replica che, senza bilancia, l’impasto risulterebbe troppo umido o compatto. Di certo c’è che si trovano in ogni forma – rotondi, ad anello o a bastoncino – e che si offrono da tradizione per ricordare un defunto. “Ma un tempo – spiegano le autrici – erano dolcetti per le feste. E chi sa che non un giorno non tornino a esserlo”.

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