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Il Nobel turco Orhan Pamuk: "Da 20 anni vivo a Istanbul nel terrore"

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Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

Abbiamo incontrato a Milano l'autore di capolavori come "Il mio nome è rosso", "Il museo dell'innocenza" e "Le notti della peste", ora in libreria con "Ricordi di montagne lontane", opera in cui sono raccolti i suoi taccuini dal 2009 al 2022. Una conversazione sulla guerra, sul terzo mandato presidenziale di Erdogan e sulla "solitudine di essere turco"

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Orhan Pamuk scrittore, Orhan Pamuk artista, ma anche e soprattutto Orhan Pamuk dissidente nella Turchia di Erdogan. Nelle 380 pagine di “Ricordi di montagne lontane”, edito da Einaudi, sono riprodotti i 12 taccuini scritti e illustrati nel corso di un decennio dallo scrittore turco, insignito del Premio Nobel nel 2006. Un dietro le quinte in cui si mette a nudo e svela il processo creativo dei suoi romanzi, fatto di ricerca, dubbi, tensioni. Nel flusso di coscienza degli appunti, in cui letteratura e vita si confondono, i disegni prendono il sopravvento sulla parola scritta e l’angoscia politica scandisce le giornate. Lo abbiamo incontrato a Milano.

 

Dal disegno alla politica

Già nella sua autobiografia, “Istanbul”, Pamuk aveva raccontato la passione per la pittura, nata da bambino e poi abbandonata per dedicarsi anima e corpo alla scrittura, ma non si poteva certo immaginare che i suoi taccuini nascondessero un universo tanto complesso e colorato. L'immagine non è mai ornamentale, nasce da un movimento interno dell'anima, dalla necessità di visualizzare le scene e i personaggi nel loro divenire. Pamuk non smette mai di scrivere e disegnare: annota, appunta, abbozza. Lo fa per fissare concetti, per non perdere la memoria dei luoghi e dei paesaggi. Eppure “Ricordi di montagne lontane” ci restituisce l’intellettuale eretico, ancor prima del Pamuk pittore e narratore, ed è per questo, a suo modo, un libro politico: più di “Neve”, un thriller del 2003 in cui ha proiettato la deflagrazione dello scontro tra integralisti islamici e nazionalisti laici, più ancora del suo ultimo romanzo “Le notti della Peste” (2022) che, per sua stessa ammissione, è un’allegoria, ambientata a inizio Novecento, dell'autoritarismo di Erdogan. Perché tra una veduta del Bosforo, una di Piazza San Marco e un profilo del Taj Mahal, tra un autoritratto e un paesaggio montuoso,  si fanno largo la sofferenza e la rabbia del "poeta" che cerca rifugio all’estero per allontanarsi dalla “sporcizia del mondo politico” e “dall’ignobile linguaggio dei giornali” del suo Paese.

 

La quotidianità di un libero pensatore

Stavolta non c'è fiction, ma la quotidianità di uno scrittore che - racconta a Sky TG24 - vive “da 20 anni nel terrore”. Si insinuano tra le pagine il sentimento umano della paura; l’insofferenza nei confronti della campagna referendaria del 2017, anno in cui la Turchia ha virato verso il presidenzialismo; l'umiliazione di dover girare per le strade della sua città con il cappello abbassato per non essere riconosciuto da quelli che chiama i “fascisti turchi”; il timore che il suo museo a Istanbul, quello ispirato a uno dei suoi libri più famosi “Il museo dell'innocenza”, venga vandalizzato. Concepisce le pagine dei taccuini come teche, a cui aggiungere costantemente nuovi elementi: è un lavoro incessante di cristallizzazione del presente, che per Pamuk è già storia.

“Tempi in cui esplodono le bombe e il sangue scorre a fiumi”

Anche a Milano ha il suo taccuino con sé. Gli chiediamo cosa abbia scritto e appuntato nelle ultime settimane segnate dal conflitto in Medio Oriente. “Sono sinceramente e terribilmente distrutto da ciò che sta accadendo con Hamas e Israele - confessa - In tempi in cui esplodono le bombe e il sangue scorre a fiumi, devi essere modesto. Non puoi fare l'eroe. Non ci sono gli spazi per esprimersi. Ma ho visto anche di peggio” racconta ripercorrendo la storia del suo Paese. ”Colpi di Stato militari, i miei amici sono stati torturati, torturati - ripete - messi in prigione. Sono stato spettatore di veri e propri orrori negli ultimi 40 anni”. Pamuk non era ancora trentenne all’epoca del golpe militare del 1980 - di coup per ristabilire lo Stato laico ce ne sono stati cinque dal 1960 al 2016 - e della scia di incarcerazioni e violenze che seguirono. In Turchia è inviso ai nazionalisti laici ma anche al partito al potere: una posizione che lo espone costantemente a polemiche e processi. Denunciato per vilipendio ad Atatürk, Padre della Patria, è finito sotto accusa per le sue opinoni sulla storia del genocidio degli armeni e dei massacri dei curdi.

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“Uno scrittore modesto”

In un continuo muoversi sulla linea del tempo, ritorna alla difficile redazione della sua quarta opera, pubblicata in Turchia nel 1990, ai tempi del Premier Turgut Özal. Anni in cui continuarono le violazioni dei diritti umani e la censura fu molto forte. Özal fu uno dei rappresentanti delle istituzioni più apertamente islamico dalla fondazione della Repubblica nel 1923, l’uomo che, secondo molti osservatori, pose le premesse per l’avanzata dell’Islam politico del decennio successivo, rompendo con l’ideologia repubblicana, nazionalista e statalista. Proprio su finire degli anni Ottanta Pamuk ebbe il coraggio di denunciare la fatwa contro Salman Rushdie, autore de “I versi satanici”: “Ho scritto il mio romanzo 'Il ilbro nero' (1990) in una condizione degradante, restando chiuso in casa, stando nella mia stanza. So come sopravvivere - afferma Pamuk - e restare a galla. E so che come scrittore di narrativa, ci sono momenti in cui puoi fare l’Émile Zola e parlare alle nazioni, e altri in cui non puoi fare nulla”.

 

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“Da 20 anni vivo nel terrore”

“C'è una pagina del libro in cui parlo del giorno in cui il presidente Erdogan se la prese con l’assegnazione del Premio Nobel a Peter Handke e disse: 'In passato hanno dato il premio anche a un terrorista turco’ - Pamuk è l'unico assegnatario di nazionalità turca del riconoscimento in ambito letterario - Mia moglie mi chiamò per dirmi che questa notizia era su tutti i giornali e i media. ‘Hai intenzione di tornare dopo queste affermazioni?’ mi chiese, perché in quel momento mi trovavo negli Stati Uniti a insegnare. È così che ho vissuto i miei ultimi 20 anni con queste preoccupazioni costanti. Cose che accadevano e accadono quotidianamente".

 

Il terzo mandato presidenziale di Erdogan

Sulle elezioni in Turchia dello scorso maggio afferma: “Sfortunatamente, i turchi hanno votato ancora per Erdogan. Penso che la sua popolarità stesse crollando, ma l’opposizione non è stata abbastanza abile da sconfiggerlo". Quali sono le sue speranze sul futuro del Paese? “Ho sempre evitato la politica partitica quotidiana, affinché il poeta che è in me non morisse. Alzo la voce per i principi, per la libertà di parola, per i diritti delle donne, per l’egualitarismo ma senza scendere in campo e tesserarmi”. Si ferma all’analisi della sconfitta senza esprimersi su quello che sarà.

 

La solitudine di essere turco

“Bravo, colto, sicuro del suo successo, eppure la solitudine di essere turco”, così scrisse in un appunto del suo taccuino nel 2009. Ma cosa significa, gli domandiamo? Pamuk dà una spiegazione sociologica che trascende la letteratura: “Quando i miei libri furono pubblicati per la prima volta, non c'erano scrittori turchi a livello internazionale, scrittori turchi famosi. È stato persino difficile trovare un traduttore e una persona esperta che traducesse i miei lavori in inglese, francese, italiano. Anche culturalmente ero lontano dalle élite europee. Ricordo una conferenza in America in cui tutti gli scrittori invitati parlavano inglese. Ero uno dei pochi a non essere né inglese, né americano, né canadese, a non appartenere al mondo anglofono e anglosassone. Gli altri si conoscevano tutti, scherzavano tra loro. Io ero solo”. Un’immagine con cui sintetizza l’isolamento di un Paese in bilico tra due continenti. “Ho sentito questa solitudine per lungo tempo, ma negli ultimi 10-15 anni si sono affacciati altri scrittori, anche altri artisti, quindi sta svanendo lentamente questa solitudine”. E continua: “C’è anche la distanza antropologica tra il modo di pensare turco e quello europeo. Ho sempre percepito questa diversità, mentre allo stesso tempo imparavo l’arte del romanzo. Scrivendo narrativa, ho utilizzato metodi letterari moderni, internazionali, che sono stati tutti scoperti dagli europei. Anche in questo senso ero solo, ero l’eccezione”. Pamuk, sostenitore dell'integrazione della Turchia all'Ue, sebbene non abbia mai risparmiato critiche ai 27, sintetizza il dilemma irrisolvibile tra Est o Ovest: “Scrivo come uno scrittore europeo, ma quando sono con gli europei, mi sento più asiatico, più turco, più musulmano laico”. 

 

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