Tra Azerbaigian e Armenia si è riacceso su larga scala un pericoloso conflitto militare che era rimasto congelato da quasi trent'anni. Al centro della contesa c’è il Nagorno Karabakh, una piccola regione a maggioranza armena, in punto di diritto appartenente all’Azerbaigian ma oggi controllata, insieme ad altri territori limitrofi, dalla Repubblica dell'Artsakh, un’entità statuale non riconosciuta dalla comunità internazionale e sostenuta dall’Armenia. Ecco il policy brief della School of Government della Luiss
Lo scorso 27 settembre tra Azerbaigian e Armenia si è riacceso su larga scala un pericoloso conflitto militare che era rimasto congelato da quasi trent’anni. Al centro della contesa c’è il Nagorno Karabakh, una piccola regione a maggioranza armena, in punto di diritto appartenente all’Azerbaigian ma oggi controllata, insieme ad altri territori limitrofi, dalla Repubblica dell'Artsakh, un’entità statuale non riconosciuta dalla comunità internazionale e sostenuta dall’Armenia. Una questione che da oltre trent’anni contrappone cause storico-culturali al diritto internazionale, il principio di autodeterminazione a quello di integrità degli stati, narrative vittimiste, interessi politici e potenze regionali. Per capire la posta in gioco, in una situazione che rischia di far detonare la regione caucasica e che potrebbe coinvolgere anche la Russia e la Turchia, iniziamo osservando che l’attuale conflitto affonda le sue radici nel processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica avviato alla fine degli anni Ottanta. Dal 1986 infatti, complice l’insieme di riforme promosse dal Segretario Generale del PCUS Mihail Gorbačëv, le questioni nazionali esplosero nelle diverse repubbliche sovietiche. Molti gruppi, specie per animare neonati fronti popolari (sostanzialmente anticomunisti), iniziarono a utilizzare soprattutto la questione linguistica nel tentativo di nazionalizzare vicende e dissidi che di nazionale avevano avuto ben poco fino ad allora.
Un conflitto etnico-nazionalistico nato dal crollo dell’URSS
È in quel contesto che la regione del Nagorno-Karabakh, popolata essenzialmente da armeni ma ufficialmente attribuita da Iosif Stalin all’Azerbaigian nel 1923, diventa contesa. Alla fine degli anni 80, Baku vuole portare a termine l’azerizzazione della regione; come reazione, gli Armeni karabaki chiedono la riunificazione con Erevan. Fino al 1991 si susseguono scontri interetnici, pogrom, pulizie etniche che finiranno per sconvolgere la demografia delle aree contese, il tutto però nell’ambito di un “presidio” dall’alto garantito dall’autorità sovietica. Quando questo viene meno, il conflitto si trasforma in una guerra su larga scala che dura fino al 1994 e coinvolge la stessa Armenia e attorni esterni sia statuali (come la Turchia che sostiene la posizione dell’Azerbaigian) sia non statuali (militanti ceceni e afghani a sostegno degli Azeri di fede islamica, o membri delle milizie panarmene e della diaspora come il gruppo ASALA a sostegno degli Armeni). Il Nagorno Karabakh, per l’Armenia come pure per l’Azerbaigian, incarna l’occasione per una sorta di “epopea risorgimentale”. Per gli Armeni la regione ha il valore di un processo di unificazione e di riscatto per il genocidio subito nel 1915-1916, per gli Azeri invece riprendere la stessa regione assomiglierebbe al momento fondativo nazionale di un Paese relativamente giovane e che ricerca le proprie origini culturali proprio nella regione contesa. È questa componente simbolica dello scontro a renderlo difficilmente risolvibile per due popoli che sono ostaggio della loro stessa narrativa nazionalista. Nel 1994, Russia e OSCE favorirono un cessate il fuoco nell’area, ma il conflitto tra i due Paesi rimase irrisolto. Ancora oggi è a tali motivazioni che occorre guardare per capire la recrudescenza della violenza dell’ultimo mese, considerato pure che il Nagorno Karabakh è un’area paesaggisticamente sì molto bella ma nient’affatto decisiva per le sue risorse naturali o energetiche, soprattutto se valutata con gli occhi dell’Azerbaigian, uno dei principali produttori di petrolio e gas del pianeta.
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Nel quarto di secolo che ci divide dal cessate il fuoco del 1994, il mancato raggiungimento di una pace duratura ha avuto conseguenze politicamente utili per entrambi i regimi. Baku infatti ha avuto sempre a disposizione una carta utile per unire la propria popolazione rispetto a un nemico esterno, per giustificare un regime autoritario, una corsa agli armamenti a ritmi esponenziali, e per suscitare simpatia nei propri confronti sul piano internazionale in quanto Paese vittima di una occupazione territoriale (condannata anche dalle Nazioni Unite). Per Erevan la gestione del Nagorno Karabakh è stata più dispendiosa dal punto di vista materiale e anche politico, allontanando dalla madrepatria un’intera classe dirigente che si era formata e legittimata propria nella Guerra del 1992-1994, sacrificando attenzione verso temi di sviluppo socio-economico dell’Armenia, e isolando un Paese che godeva di poche simpatie all’estero, al punto da rendere famosa la frase “abbiamo conquistato il Karabakh, ma abbiamo perso l’Armenia”. D’altronde però l’Armenia ha potuto contare sull’appoggio della Russia, anche in termini difensivi, e questo l’ha fortemente rassicurata.
Negli oltre trenta anni di conflitto tra azeri e armeni, molte delle condizioni degli attori protagonisti e del contesto internazionale sono cambiate. Soltanto così si può spiegare la nuova fiammata di violenza. In sintesi, di quali cambiamenti stiamo parlando?
a) L’Azerbaigian si è molto rafforzato economicamente
Dal 2003, Ilham Aliyev ha rafforzato un regime autoritario, dinastico e neopatrimoniale, legittimato dagli enormi proventi sull’esportazione di idrocarburi. Dal 1993 al 2003, suo padre Gaydar, che era già stato un ufficiale del KGB e primo segretario del partito comunista dell’Azerbaijan fino a diventare una figura centrale del regime sovietico, fu l’artefice del cosiddetto “contratto del secolo”, che permetteva alle compagnie petrolifere occidentali di investire sul petrolio e sulle infrastrutture energetiche azere. Durante la presidenza di Aliyev padre, fu concepito l’oleodotto (Baku-Tbilisi-Ceyhan) – poi terminato nel 2006 e a lui intitolato – che porta l’oro nero dal Mar Caspio al Mar Mediterraneo, passando per Georgia e Turchia. Lo sfruttamento delle risorse energetiche diveniva il principale fattore del boom economico degli anni 2000 (con un PIL che nel 2006 era cresciuto del 34,5% rispetto all’anno precedente!) e dello scarto, in termini di sviluppo tecnologico, economico e sociale, rispetto a un paese più povero come l’Armenia.
b) Il ruolo delle nuove tecnologie militari
L’Azerbaigian, come conseguenza di questa sua sostenuta crescita economica, si è anche rafforzato militarmente. Quello che negli anni 90 era un esercito fondamentalmente impreparato per un conflitto su larga scala, nel tempo si è modernizzato grazie a investimenti nelle più sofisticate tecnologie militari, costituendo un atout senza precedenti per Baku. Su questo fronte l’Azerbaigian si è avvantaggiato della cooperazione commerciale soprattutto con un Paese all’avanguardia nel settore militare-tecnologico come Israele. Lo Stato ebraico da una parte non ha relazioni idilliache con l’Armenia, complice pure una antica avversità a riconoscere ufficialmente il genocidio armeno, dall’altra ha sempre cercato buone relazioni con l’Azerbaigian per guadagnare un avamposto in un eventuale conflitto con l’Iran, paese culturalmente vicino a Baku (in Iran c’è anche una minoranza azera piuttosto consistente) ma che ha mantenuto relazioni amichevoli con l’Armenia e un atteggiamento piuttosto neutrale sulla questione karabaka.
c) L’indebolimento (relativo) dell’Armenia
Una guerra che negli anni Novanta era combattuta prevalentemente con i carri armati e con i gruppi armati attivi nelle montagne e nelle trincee, oggi – a giudicare dalle stesse immagini dei media e canali ufficiali delle forze armate azere e armene – si è trasformata in una guerra che utilizza artiglieria pesante, attacchi missilistici e, soprattutto per quanto riguarda l’esercito azerbaigiano, droni con avanzate capacità offensive. Ciò ha mutato gli equilibri in campo, a discapito degli Armeni che finora si ritenevano pronti a combattere un ulteriore conflitto su larga scala e subiscono attacchi lungo il fronte e nelle principali città karabakhe. Allo stesso tempo, le rappresaglie compiute dagli armeni con gli attacchi missilistici contro le città di Ganja, Tartar e Goranboy hanno esposto l’Azerbaijan agli orrori di una guerra che sembrava localizzata a una regione remota ma che finiva per travolgere il cuore del paese. Ancora una volta, a farne le spese sono stati soprattutto i civili, vittime dei brutali bombardamenti compiuti da entrambi i lati del fronte.
d) Una diaspora ingombrante
Se negli anni Novanta l’Azerbaigian evitò per poco una rotta totale, oggi i ruoli sembrano invertiti. Erevan infatti, oltre a non riconoscere ufficialmente la propria presenza nel Nagorno Karabakh, non ha investito quanto Baku sul proprio rafforzamento economico e militare; inoltre ha continuato a fare affidamento su una diaspora armena nel mondo che ha investito milioni di dollari nello sviluppo della regione, spesso a scapito della madrepatria. Lo conferma, seppure in maniera aneddotica, il fatto che ci si accorge di essere arrivati in Karabakh dalla qualità delle strade, nettamente superiori rispetto a quelle in Armenia, che erano state ricostruite anche grazie alla diaspora armena in America e in Francia. Oppure il fatto che uno dei membri più eminenti della diaspora attiva nella lotta armata per il Nagorno Karabakh era un elettricista californiano di origini armene chiamato Monte Melkonian, figura considerata eroe nazionale per gli armeni e un terrorista per gli azeri.
e) Un’arma di distrazione di massa
La raccolta di decine di milioni di dollari a supporto della causa militare karabakha e i continui appelli della diaspora e della stessa classe dirigente armena a supportare lo sforzo bellico in Karabakh acutizzano un conflitto che ha monopolizzato il discorso politico e le risorse di un popolo sottraendole a problemi più importanti. Similmente, in Azerbaijan, Aliyev ha continuato a legittimare il proprio regime autoritario sul mito della riconquista, infiammando un discorso militarista che distraeva l’opinione pubblica, reprimendo il dissenso e scongiurando le proteste democratiche contro un regime dispotico.
f) L’atteggiamento interventista della Turchia
Tra le novità recenti da considerare, inoltre, c’è sicuramente il ruolo molto più proattivo giocato da Ankara. In particolare, negli ultimi anni, la Turchia di Erdogan è intervenuta in una lunga serie di conflitti regionali. Lo ha fatto a suon di dichiarazioni, di negoziati diplomatici, ma spesso anche attraverso l’uso della forza (diretto o mediato che sia). Si pensi a quanto accaduto in Siria negli scorsi anni, poi ancora in Libia, quindi nel Mediterraneo orientale con la Grecia, e oggi con l’Azerbaijan al quale la Turchia ha dichiarato pieno supporto diplomatico e militare permettendo, inoltre, l’afflusso di miliziani siriani e libici sul fronte karabakho. Sostenere l’Azerbaigian nel conflitto e rivendica un ruolo nel format di Minsk, tra le altre cose, offre ad Ankara una leva negoziale con la Russia per trattare su scacchieri diversi come Siria e Libia.
g) L’atteggiamento cauto della Russia
Mosca invece, negli ultimi tempi, è parsa più cauta nel suo sostegno all’Armenia. La Federazione Russa è impegnata su un numero di fronti diplomatico-militari non indifferenti come Ucraina, Siria, Libia e Bielorussia e preferirebbe rimanere fuori dall’unico conflitto congelato dello spazio post Sovietico nel quale non ha avuto un ruolo diretto. Tali fattori lasciano pensare che la Russia, pur rimanendo formalmente alleata con l’Armenia, non sarebbe disposta a intervenire per difendere l’occupazione di una regione – il Nagorno Karabakh – che la stessa Armenia non riconosce nei propri confini e nemmeno diplomaticamente come governo indipendente.
h) L’esitazione dell’Iran
La Repubblica islamica iraniana è stata a lungo l’unica potenza dell’area a mantenere rapporti amichevoli (e un confine terrestre aperto) con l’Armenia, anche se di recente anch’essa ha chiuso ufficialmente la strada alle forniture militari verso Erevan. Nonostante la comune fede sciita con l’Azerbaigian, Teheran ha sempre temuto – specie negli anni Novanta – che Baku potesse giocare la carta del nazionalismo azero, creando problemi anche nel proprio territorio che è abitato da una consistente minoranza azera. Da qui il tentativo dell’Iran di ergersi a mediatrice tra Armenia e Azerbaigian. Ciononostante, le ultime proteste di piazza e le manifestazioni popolari di solidarietà all’Azerbaijan hanno spostato la posizione ufficiale iraniana verso una dimensione più filo-azera.
Gli scenari futuri e il ruolo dell’Unione europea
Dopo i conflitti e i sommovimenti in Ucraina, Siria, Libia e Bielorussia, tanto per citarne alcuni, quella del Nagorno Karabakh è l’ennesima area di instabilità che si manifesta alle porte dell’Europa. Tuttavia, non illudano le dichiarazioni di principio delle autorità comunitarie e gli auspici per un ruolo da mediatrice dell’Ue: nessun conflitto come quello del Nagorno Karabakh sembra ad oggi tanto distante da Bruxelles. C’è la distanza geografica che pesa, certo, c’è la povertà di leve diplomatiche da attivare nel Caucaso, ma soprattutto c’è una diversa concezione della politica internazionale. Gli scontri violenti dell’ultimo mese tra azeri e armeni ricordano infatti all’Unione europea che le ottocentesche questioni nazionali e le guerre ancora esistono; soprattutto in un contesto dove entrambe le parti hanno riconosciuto la legittimità dell’uso della forza per risolvere la questione karabakha. Questo conflitto, nello specifico, rammenta a Bruxelles che si può ricorrere alla forza militare per promuovere i propri interessi geopolitici (come fanno Russia e Turchia nell’area) e addirittura per sostenere le proprie “ragioni” di stampo puramente etnico-nazionalistico (come fanno appunto azeri e armeni). Per un’Unione Europea che si presenta come una “superpotenza civile” e sembra aspirare all’uso esclusivo del diritto, un conflitto d’altri tempi come quello tra azeri e armeni appare per il momento fuori dalla propria portata, geopolitica e culturale. In definitiva, se quello tra Armenia e Azerbaigian può essere considerato “un conflitto nazionale fuori tempo massimo”, allora purtroppo diventa a maggior difficile prevedere una fine pacifica per una questione in cui nessuna delle due parti può fare concessioni. Le tensioni sembrano destinate a risolversi solamente nel momento in cui si arrivasse a uno dei seguenti scenari: la riconquista completa del Nagorno Karabakh da parte di un’Azerbaigian rampante, oppure l’ufficializzazione della gestione del Nagorno Karabakh da parte dell’Armenia e il riconoscimento internazionale della Repubblica dell'Artsakh. Fino ad allora, il conflitto pare destinato a continuare, seppur con interruzioni e tregue tattiche, come testimoniano pure i toni ultimativi usati dalle due parti in causa. Al momento possiamo soltanto sperare in un ripristino del cessate il fuoco e nella fine di regimi e discorsi nazionalistici che hanno stremato due Paesi in cerca di una propria identità post-sovietica. Un coinvolgimento militare diretto e decisivo di attori esterni, come per esempio quello turco o russo, può essere messo in conto solo nel caso di una nuova e ulteriore carneficina indiscriminata che mettesse a repentaglio la sopravvivenza e l’integrità territoriale di questi due Paesi che rimangono ostaggio di un pericoloso discorso sciovinista e forse antistorico.