Il governo degli Stati Uniti sta finanziando con 2 milioni di dollari un progetto tecnologico per cyber-attivisti: un vero e proprio kit di sopravvivenza - software e hardware – in caso di blocco dell'accesso alla rete
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di Raffaele Mastrolonardo
Lo ha fatto Mubarak in Egitto, poi Gheddafi in Libia e ora anche Bashar Assad in Siria. Dopo avere constatato il crescente ruolo che Internet gioca nelle rivolte che da mesi attraversano Medio oriente e Nord Africa, sempre più spesso gli autocrati ricorrono alle maniere tecnologicamente forti. Non solo, come hanno sempre fatto, intimidiscono i cyber-attivisti e censurano come possono il flusso di contenuti digitali ma arrivano fino all'arma finale: lo spegnimento della rete entro i confini del loro Paese. Blackout, insomma, e addio alla spinta destabilizzante del web. O almeno così sperano i dittatori. Perché, nel frattempo, per limitare le conseguenze di simili decisioni si sta muovendo con decisione il Pentagono e, in particolare, un gruppo di esperti del centro studi Open Technology Initiative. Finanziati dal governo degli Stati Uniti con 2 milioni di dollari stanno lavorando a un progetto ribattezzato “Internet in valigia”, vale a dire un vero e proprio kit di sopravvivenza - software e hardware – per dissidenti in caso di blocco dell'accesso alla rete.
Il progetto della “Valigia Internet” raccontato da Al Jazeera
L'obiettivo, come ha spiegato al New York Times Sascha Meinhrat, che guida il progetto, è quello di dare ai cyber-attivisti gli strumenti per creare un network parallelo che funzioni anche in caso di blackout alle connessioni imposto dall'alto. Nella valigia, da quello che è dato capire in assenza di specifiche dettagliate, troverebbero così posto antenne wireless, laptop per l'amministrazione del sistema, pennette e Cd per la diffusione del software di comunicazione e di cifratura delle comunicazioni così come cavi Ethernet. I programmi informatici, ha detto Josh King, uno dei partecipanti al progetto, sono open source, ovvero con codice aperto e dunque potenzialmente migliorabili da chiunque.
Dal punto di vista più strettamente tecnologico, gli strumenti di cui si parla servono a creare una rete cosiddetta “mesh”, a maglie, in cui i vari dispositivi degli utenti dotati di collegamento wireless (Pc, smartphone, laptop) diventano altrettanti “nodi” di un network lungo il quale risulta così possibile far circolare e-mail, documenti, immagini, video. Perché questo avvenga è però necessario che tutti i dispositivi in questione abbiano installato il software che permette la comunicazione tra le varie macchine e che ci siano antenne che aumentino la portata del segnale Wi-Fi. Quanto più il software e le antenne fossero diffuse tanto più ampia sarebbe la rete alternativa.
Un simile network, per quanto largo, sarebbe però ancora di una rete “privata”, una sorta di Intranet scollegata dal resto della Internet globale. Non si potrebbe dunque verificare uno degli effetti non secondari del Web in situazioni di rivolta: ovvero la diffusione di informazioni al di fuori del Paese. Ma – come fanno notare alcuni esperti – questo è solo il primo passo, necessario a consentire agli attivisti locali la comunicazione. Per ripristinare il link con il resto di Internet è necessario un passaggio successivo che consenta la diffusione di connettività nel Paese scavalcando gli operatori locali. Per esempio, attraverso connessioni satellitari o il WiMax (con il segnale, magari diffuso da una nave sistemata in acque internazionali). Iniziative simili sono allo studio e alcune di queste saranno finanziate dal Pentagono che, sotto la spinta di Hillary Clinton - dice il New York Times - investirà entro il 2011 70 milioni di dollari in tecnologie anti-censura.
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