Estate 2006. Sul suo blog Zena el Khalil decide di raccontare l’ultimo conflitto israelo-libanese. Ora quella testimonianza è diventata un libro ("Beirut I love you"), dedicato alla capitale del Libano e alla sua storia più recente. Leggine un estratto
di Zena el Khalil
È stato agrodolce il periodo dopo la fine della guerra civile in Libano. Un periodo di eccessi. Si era incredibilmente felici, incredibilmente tristi o incredibilmente strafatti.
Facemmo del nostro meglio, quelli che erano felici, per ricostruire il paese, con gioia. Abbiamo creato le Ong e i gruppi di sostegno, organizzato mostre e pubblicato poesie, indetto concorsi di architettura per ricostruire il centro, fornito assistenza a chi soffriva di ansia e depressione per la guerra.
Nonostante tutti gli ostacoli, abbiamo cercato di imparare a essere di nuovo una comunità. Tentavamo di riconciliarci con i nostri passati, di negoziare un’identità nazionale. Siamo stati in piedi notti intere a fare progetti su come ricostruire le nostre vite, e per raggiungere una convivenza fondata su fiducia, tolleranza e amore.
Nonostante le tensioni provocate dai nostri vicini, gli israeliani, che minacciavano costantemente di destabilizzarci. Nonostante le tensioni legate al vivere sotto una nuova occupazione – questa volta siriana. Siamo stati in piedi notti intere: sacrificando la nostra salute, i nostri sogni personali, per costruire una memoria collettiva. Per ricostruire il Libano. E ci veniva così facile. Perché, dopo anni di oppressione e conflitti, si impara che l’unica cosa da fare è reagire e andare avanti.
Noi libanesi abbiamo appreso bene quell’arte. Per tutta la notte battagliamo: fa giorno, ci alziamo, ci vestiamo, e via a lavorare… spesso come se nulla fosse. Non so se sia una benedizione o una disgrazia.
Quelli di noi che, per ragioni personali, non potevano prendere parte alla ricostruzione, emigrarono in cerca di lavoro.
Per fare soldi e mantenere le loro famiglie distrutte. Per costruirsi una nuova vita. Per dimenticare. Per lasciar perdere. Se facessimo un’analisi statistica, di certo verrebbe fuori che la maggioranza degli emigrati erano maschi.
Quando i nostri uomini cominciarono a emigrare, ci accorgemmo che stavano scomparendo. Dove se ne andavano tutti quanti? Sparivano quelli con gli occhi neri e la pelle scura: dicevano di essere bene accetti nel Golfo arabo. Lasciavano il paese quelli con i capelli chiari e gli occhi azzurri: dicevano che l’Europa e l’Amrika li accoglievano a braccia aperte.
Ben presto non erano rimasti abbastanza uomini per le donne, e a quel punto le donne cominciarono a mettersi tra loro. Le donne si innamoravano di donne non perché fossero nate così, ma perché stufe e sole ed era una cosa facile, anche se, in base alle norme vigenti, in Libano è illegale «consumare un atto sessuale contro natura». Si tenevano permano in pubblico e nessuno ci badava. Si baciavano nelle toilette dei locali e non importava niente a nessuno. Parlavano in linguaggi cifrati e poetici. Danzavano al proprio ritmo. Ciascuna era semplicemente felice di essere innamorata e amata.
Dopo la guerra nessuno voleva rispettare le regole, non ne potevamo più. Dopo la guerra le linee di confine si facevano sempre più sfocate. Tutto si rimescolava, file ai night, code per le toilette, strisce di coca.
Tutta la notte a bere, a ballare, in giro in macchina, a scrivere. Ad amare, a fare l’amore. A inventare nuovi spazi che prima non erano mai esistiti nel nostro meraviglioso paese. E fu in questi spazi che creammo grandi opere, nell’arte e nella letteratura, che erano così acerbe, così belle. In questi spazi ci abbandonammo ai nostri desideri più intimi e comprendemmo come il sesso servisse solo a coprire bisogni più profondi. Imparavamo a riconciliarci con noi stesse, e l’unico modo per farlo era andare a letto con quante più persone possibile. Possedendo i loro corpi, ci riprendevamo i nostri. Avevamo vissuto la guerra, eravamo sopravvissute.
I nostri corpi erano vivi, e l’unico modo per sperimentarlo era esaltarli. Il sesso era diventato una dipendenza. E con la scarsità di uomini nel paese, lasciato cadere ogni pudore, ci siamo messe tra di noi. Quelli di noi che erano impegnati nella ricostruzione avevano una vita intensa. Cercavamo di parlare della guerra, promettendo solennemente che non avremmo mai dimenticato quello che era successo. Volevamo imparare da tutto questo. Giuravamo di fare in modo che intorno a noi nessuno dimenticasse. Ma stavamo già dimenticando, era una situazione paradossale. Di giorno lavoravamo per ricostruire, di notte bevevamo per dimenticare. Cercavamo di mantenerci in uno stato di semicoscienza. L
ottavamo per non diventare ipocriti come erano stati i nostri genitori. Ci ripromettevamo di portar via il denaro e le ricchezze ai guerrafondai, che ora facevano i politici, per distribuirli alle masse. Passeggiavamo per rue Hamra riflettendo sugli errori delle generazioni precedenti, sulla cieca fede che avevano riposto in un pericoloso idealismo, proprio quella fede che li aveva spinti a partecipare ai massacri e alle discriminazioni religiose.
Giuravamo che non saremmo mai stati come loro. Che avremmo ritrovato le nostre identità senza farci influenzare. Se era andata così per i francesi, gli amrikani o gli iraniani, non è detto che sarebbe stato lo stesso per noi. Vedevamo il lavoro che avevamo davanti e giuravamo che avremmo saputo affrontarlo.Giuravamo di realizzare una rivoluzione culturale calata nella realtà della vita di ogni giorno. Ma paradossalmente, più facevamo giuramenti, più ne infrangevamo. Più parlavamo, più bevevamo. E più pensavamo… più facevamo sesso. Non si concludeva né si sarebbe concluso nulla. Corpi che divoravano altri corpi. Eravamo stanchi.
L’intervento straniero rendeva difficile portare a termine qualunque cosa, e certi cambiamenti erano impossibili a causa di sistemi feudali vecchi di secoli. Eravamo giovani: forse volevamo soltanto andarcene in giro per i centri commerciali come facevano i ragazzi negli altri paesi. Forse volevamo solo stare davanti alla tv, o fare qualche cretinata.Ma la Beirut postbellica era una sfida cui non potevamo sottrarci. Era sui nostri volti. Investiva le nostre vite, il lavoro, l’istruzione, e i nostri sogni.
Eravamo giovani, volevamo soltanto vivere, ma non ci rendevamo conto che crescendo troppo in fretta ci facevamo anche del male tra di noi: anziché con i fucili, con il sesso.
In pubblico gridavamo la nostra opposizione, ma nell’oscurità ci scaricavamo addosso a vicenda le nostre delusioni. Noi, i sognatori, non potevamo tenere il passo del governo e degli affaristi, che la sera prima avevano firmato megacontratti da milioni di dollari. Andate piano. Andate piano, li supplicavamo.
Pensate a come si fa, a cosa significa ricostruire così in fretta. E rendendoci conto che non ce la facevamo a tenere duro, abbiamo deciso di vivere oggi e darci da fare domani. Ma a Beirut… il domani non arriva mai.
Copyright © 2009 by Zena el Khalil, All rights riserve. Published by arrangegement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria, On Behalf of toby eady Associates Ltd. © 2010 Donzelli editore Roma,
Tratto da Zena el Khalil, Beirut I love you, Donzelli, pp.238, euro 16
Zena el Khalil è nata a Londra nel 1976. Ha vissuto in Nigeria, a Beirut e negli Stati Uniti. Attualmente vive tra Beirut e Torino. È un’artista riconosciuta a livello internazionale.Nei suoi lavori utilizza varie forme di espressione: la pittura, la performance e l’installazione. Il blog che racconta l’assedio del Libano del 2006 è disponibile all’indirizzo beirutupdate.blogspot.com.
È stato agrodolce il periodo dopo la fine della guerra civile in Libano. Un periodo di eccessi. Si era incredibilmente felici, incredibilmente tristi o incredibilmente strafatti.
Facemmo del nostro meglio, quelli che erano felici, per ricostruire il paese, con gioia. Abbiamo creato le Ong e i gruppi di sostegno, organizzato mostre e pubblicato poesie, indetto concorsi di architettura per ricostruire il centro, fornito assistenza a chi soffriva di ansia e depressione per la guerra.
Nonostante tutti gli ostacoli, abbiamo cercato di imparare a essere di nuovo una comunità. Tentavamo di riconciliarci con i nostri passati, di negoziare un’identità nazionale. Siamo stati in piedi notti intere a fare progetti su come ricostruire le nostre vite, e per raggiungere una convivenza fondata su fiducia, tolleranza e amore.
Nonostante le tensioni provocate dai nostri vicini, gli israeliani, che minacciavano costantemente di destabilizzarci. Nonostante le tensioni legate al vivere sotto una nuova occupazione – questa volta siriana. Siamo stati in piedi notti intere: sacrificando la nostra salute, i nostri sogni personali, per costruire una memoria collettiva. Per ricostruire il Libano. E ci veniva così facile. Perché, dopo anni di oppressione e conflitti, si impara che l’unica cosa da fare è reagire e andare avanti.
Noi libanesi abbiamo appreso bene quell’arte. Per tutta la notte battagliamo: fa giorno, ci alziamo, ci vestiamo, e via a lavorare… spesso come se nulla fosse. Non so se sia una benedizione o una disgrazia.
Quelli di noi che, per ragioni personali, non potevano prendere parte alla ricostruzione, emigrarono in cerca di lavoro.
Per fare soldi e mantenere le loro famiglie distrutte. Per costruirsi una nuova vita. Per dimenticare. Per lasciar perdere. Se facessimo un’analisi statistica, di certo verrebbe fuori che la maggioranza degli emigrati erano maschi.
Quando i nostri uomini cominciarono a emigrare, ci accorgemmo che stavano scomparendo. Dove se ne andavano tutti quanti? Sparivano quelli con gli occhi neri e la pelle scura: dicevano di essere bene accetti nel Golfo arabo. Lasciavano il paese quelli con i capelli chiari e gli occhi azzurri: dicevano che l’Europa e l’Amrika li accoglievano a braccia aperte.
Ben presto non erano rimasti abbastanza uomini per le donne, e a quel punto le donne cominciarono a mettersi tra loro. Le donne si innamoravano di donne non perché fossero nate così, ma perché stufe e sole ed era una cosa facile, anche se, in base alle norme vigenti, in Libano è illegale «consumare un atto sessuale contro natura». Si tenevano permano in pubblico e nessuno ci badava. Si baciavano nelle toilette dei locali e non importava niente a nessuno. Parlavano in linguaggi cifrati e poetici. Danzavano al proprio ritmo. Ciascuna era semplicemente felice di essere innamorata e amata.
Dopo la guerra nessuno voleva rispettare le regole, non ne potevamo più. Dopo la guerra le linee di confine si facevano sempre più sfocate. Tutto si rimescolava, file ai night, code per le toilette, strisce di coca.
Tutta la notte a bere, a ballare, in giro in macchina, a scrivere. Ad amare, a fare l’amore. A inventare nuovi spazi che prima non erano mai esistiti nel nostro meraviglioso paese. E fu in questi spazi che creammo grandi opere, nell’arte e nella letteratura, che erano così acerbe, così belle. In questi spazi ci abbandonammo ai nostri desideri più intimi e comprendemmo come il sesso servisse solo a coprire bisogni più profondi. Imparavamo a riconciliarci con noi stesse, e l’unico modo per farlo era andare a letto con quante più persone possibile. Possedendo i loro corpi, ci riprendevamo i nostri. Avevamo vissuto la guerra, eravamo sopravvissute.
I nostri corpi erano vivi, e l’unico modo per sperimentarlo era esaltarli. Il sesso era diventato una dipendenza. E con la scarsità di uomini nel paese, lasciato cadere ogni pudore, ci siamo messe tra di noi. Quelli di noi che erano impegnati nella ricostruzione avevano una vita intensa. Cercavamo di parlare della guerra, promettendo solennemente che non avremmo mai dimenticato quello che era successo. Volevamo imparare da tutto questo. Giuravamo di fare in modo che intorno a noi nessuno dimenticasse. Ma stavamo già dimenticando, era una situazione paradossale. Di giorno lavoravamo per ricostruire, di notte bevevamo per dimenticare. Cercavamo di mantenerci in uno stato di semicoscienza. L
ottavamo per non diventare ipocriti come erano stati i nostri genitori. Ci ripromettevamo di portar via il denaro e le ricchezze ai guerrafondai, che ora facevano i politici, per distribuirli alle masse. Passeggiavamo per rue Hamra riflettendo sugli errori delle generazioni precedenti, sulla cieca fede che avevano riposto in un pericoloso idealismo, proprio quella fede che li aveva spinti a partecipare ai massacri e alle discriminazioni religiose.
Giuravamo che non saremmo mai stati come loro. Che avremmo ritrovato le nostre identità senza farci influenzare. Se era andata così per i francesi, gli amrikani o gli iraniani, non è detto che sarebbe stato lo stesso per noi. Vedevamo il lavoro che avevamo davanti e giuravamo che avremmo saputo affrontarlo.Giuravamo di realizzare una rivoluzione culturale calata nella realtà della vita di ogni giorno. Ma paradossalmente, più facevamo giuramenti, più ne infrangevamo. Più parlavamo, più bevevamo. E più pensavamo… più facevamo sesso. Non si concludeva né si sarebbe concluso nulla. Corpi che divoravano altri corpi. Eravamo stanchi.
L’intervento straniero rendeva difficile portare a termine qualunque cosa, e certi cambiamenti erano impossibili a causa di sistemi feudali vecchi di secoli. Eravamo giovani: forse volevamo soltanto andarcene in giro per i centri commerciali come facevano i ragazzi negli altri paesi. Forse volevamo solo stare davanti alla tv, o fare qualche cretinata.Ma la Beirut postbellica era una sfida cui non potevamo sottrarci. Era sui nostri volti. Investiva le nostre vite, il lavoro, l’istruzione, e i nostri sogni.
Eravamo giovani, volevamo soltanto vivere, ma non ci rendevamo conto che crescendo troppo in fretta ci facevamo anche del male tra di noi: anziché con i fucili, con il sesso.
In pubblico gridavamo la nostra opposizione, ma nell’oscurità ci scaricavamo addosso a vicenda le nostre delusioni. Noi, i sognatori, non potevamo tenere il passo del governo e degli affaristi, che la sera prima avevano firmato megacontratti da milioni di dollari. Andate piano. Andate piano, li supplicavamo.
Pensate a come si fa, a cosa significa ricostruire così in fretta. E rendendoci conto che non ce la facevamo a tenere duro, abbiamo deciso di vivere oggi e darci da fare domani. Ma a Beirut… il domani non arriva mai.
Copyright © 2009 by Zena el Khalil, All rights riserve. Published by arrangegement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria, On Behalf of toby eady Associates Ltd. © 2010 Donzelli editore Roma,
Tratto da Zena el Khalil, Beirut I love you, Donzelli, pp.238, euro 16
Zena el Khalil è nata a Londra nel 1976. Ha vissuto in Nigeria, a Beirut e negli Stati Uniti. Attualmente vive tra Beirut e Torino. È un’artista riconosciuta a livello internazionale.Nei suoi lavori utilizza varie forme di espressione: la pittura, la performance e l’installazione. Il blog che racconta l’assedio del Libano del 2006 è disponibile all’indirizzo beirutupdate.blogspot.com.