Afghanistan-Italia: un viaggio lungo dieci anni

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Kandahar, Teheran, Ankara, Istanbul, Atene fino all'arrivo a Torino: in "Nel mare ci sono i coccodrilli" (Bcdeditore) Fabio Geda racconta l'incredibile fuga di Enajatollah Akbari dalla dittatura e dalla schiavitù. Leggi uno stralcio del libro

di Fabio Geda

ITALIA

Non dovevo alzarmi, ancora. Non dovevo muovermi. Stare fermo, non respirare, attendere. Essere paziente. La pazienza salva la vita.
Uscito dal porto – erano trascorsi quindici minuti, direi, in ogni caso meno di mezz’ora – il camion ha rallentato ed è entrato in un cortile, un cortile pieno zeppo di altri camion, motrici, rimorchi.
Gli amici, in Grecia, mi avevano suggerito di non scendere subito, di aspettare che il camion penetrasse a fondo nel Paese (qualunque Paese fosse), che si allontanasse dalle frontiere e poi di approfittare di una sosta dell’autista, magari a un autogrill, per sgattaiolare via. Sono rimasto rannicchiato, tranquillo, in attesa che il camion ripartisse. Ripassavo le azioni tra me e me, per essere svelto e preciso: saltare a terra, atterrare sulla punta dei piedi, rotolare, se era necessario, per attutire il colpo, cercare una via di fuga, correre, non voltarmi, correre. Ma. Invece di ripartire, a un certo punto, ho sentito come un terremoto. Mi sono sporto.
Una gru enorme aveva agganciato il rimorchio in cui ero. Mi sono spaventato tantissimo.

Ho pensato: Cosa capita, adesso? Se finivo in un tritametalli? Allora mi sono detto che dovevo scendere, subito, e mi sono buttato giù.
Tre uomini stavano lavorando attorno alla gru. Sono atterrato come un sacco di patate (nonostante le prove mentali di prima), perché le gambe erano di legno e non potevano ammortizzare il salto.
Quando sono atterrato ho cacciato un urlo. E sarà per l’urlo, o per il fatto che non si aspettavano di vedere piovere un afghano dal cielo, ma si sono spaventati tantissimo, quei tre uomini; e un cane, anche un cane che era lì di guardia, è fuggito via. Sono caduto sul cemento, goffo, ma ho subito controllato le vie di fuga. Non potevo lasciarmi distrarre dal dolore.
Ho visto che una parte del muro di cinta, quello che divideva il cortile dalla strada, era crollato. Sono corso in quella direzione, a quattro zampe, da animaletto; non riuscivo a stare in piedi. Pensavo mi inseguissero, invece uno dei ragazzi in tuta da lavoro s’è messo a urlare: Go, go. E mi ha indicato la statale. Nessuno ha provato a fermarmi.

Il primo cartello stradale che ho incontrato era un cartello blu. C’era scritto: Venezia.
Ho camminato a lungo, seguendo una strada poco trafficata. D’un tratto, in fondo, ho visto spuntare due figure che si muovevano veloci. Quando si sono avvicinate, ho capito che erano due ciclisti. Mi hanno visto e – credo a causa dei miei vestiti sporchissimi, o per i capelli incrostati di catrame, o per la mia faccia – hanno rallentato e si sono fermati. Mi hanno chiesto se andava tutto bene, se avevo bisogno di qualcosa, un gesto che mi ha fatto molto piacere.
Abbiamo parlato in inglese, per quanto possibile, e quando il primo ha detto di essere francese io ho detto: Zidane. Poi, quando il secondo ha detto di essere brasiliano, ho detto: Ronaldinho. Conoscevo solo questo dei loro Paesi, e volevo fargli sapere che li apprezzavo. Mi hanno chiesto da dove venivo io.
Ho detto: Afghanistan. Loro hanno detto: Taleban, taleban. Questo era quello che loro sapevano del mio. Uno di loro – il brasiliano, credo – mi ha dato venti euro. Mi hanno indicato la direzione della città più vicina, che era Mestre, io li ho salutati con la mano e ho ripreso a camminare, e ho camminato fino a quando ho trovato la fermata di un pullman. C’erano due o tre persone in attesa, tra loro un ragazzo giovanissimo. Sono andato da lui e ho detto: Train station?
Ora, io non so chi fosse quel ragazzo, forse era un angelo, ma mi ha aiutato davvero tanto. Mi ha detto vieni con me, mi ha fatto salire con lui sul pullman. Arrivati a Venezia, a piazzale Roma, mi ha comprato un panino perché dovevo avere la faccia di uno che aveva fame, mi ha portato in una chiesa dove ha recuperato dei vestiti nuovi da darmi e dove ho potuto lavarmi, per non fare schifo alla gente.
Ora, forse è ovvio, ma quanto è bella Venezia? Tutta nell’acqua. Io ho pensato: Mamma mia, sono in paradiso. Magari tutta l’Italia era così. Nel frattempo dicevo a quel ragazzo Rome, Rome. Allora lui ha capito che volevo andare a Roma, mi ha accompagnato alla stazione e mi ha fatto anche il biglietto. Ho pensato che forse era un parente della nonna greca; tanta gentilezza, secondo me, la si tramanda solo con l’esempio.

Io non sapevo quanta distanza ci fosse tra Venezia e Roma e quanto tempo avrei impiegato ad arrivarci. Non volevo andare oltre, altrimenti mi sarei perso, quindi ero preoccupato, com’è giusto. A Roma sapevo come fare: avevo le istruzioni in mente. Dovevo uscire dalla stazione centrale e, nel piazzale, cercare il pullman numero 175. Queste sono informazioni che si hanno anche in Grecia.
Nel posto davanti al mio c’era un signore grosso che ha subito aperto il computer portatile per lavorare. In ogni stazione dove ci fermavamo, o anche solo se il treno rallentava, mi sporgevo dietro il suo computer e chiedevo please Rome, please Rome. Ma doveva esserci un grave problema di comunicazione tra di noi, perché quando dicevo please Rome, please Rome, lui rispondeva: No rum, no rum, e questo perché io, Rome, lo pronunciavo rum. A un certo punto, a furia di chiedere please Rome, please Rome, il signore grosso ha cominciato a gridare, arrabbiato, ma proprio furibondo: No rum. No. Basta.
Si è alzato ed è andato via. Ho avuto paura chiamasse la polizia. Invece, qualche minuto dopo, è tornato con una Coca-Cola in lattina e me l’ha sbattuta davanti. Ha detto: No rum. Coca-Cola. No rum. Drink. Drink. Io non ho capito bene cosa fosse successo, ma una Coca- Cola non si rifiuta mai, così ho aperto la lattina e l’ho bevuta e ho pensato che, davvero, era strano forte quel tizio, che prima s’arrabbiava e poi mi portava una lattina in regalo. O no? Così, quando siamo arrivati a una nuova stazione – io ero lì che sorseggiavo la mia lattina di Coca-Cola – mi sono sporto, innocente, e ho detto Please Rome, please Rome.

A quel punto, lui ha capito. Ha detto: Roma. Non rum. Roma. Ho fatto sì con la testa.
A gesti mi ha spiegato che anche lui era diretto a Roma e che la stazione centrale – Termini, l’ha chiamata – era la stessa per entrambi, e che potevo stare tranquillo, perché era l’ultima fermata. Così a Roma siamo scesi insieme. Sul binario mi ha stretto la mano, il signore grosso, ha detto: Bye bye. Io ho risposto: Bye bye. E ci siamo separati.
Il piazzale della stazione era affollatissimo: auto, gente, pullman. Ho girato tutte le paline gialle per cercare il numero 175. Sapevo di dover scendere al capolinea. Era buio quando sono arrivato a Ostiense. Attorno a me c’era un sacco di gente, di quelli che voi chiamate barboni e io chiamo poverini, ma nessun afghano. Poi ho visto una fila lunga di gente, contro un muro, e lì, lì sì, c’erano degli afghani. Mi sono messo in coda con loro.
Mi hanno spiegato che aspettavano da mangiare e che a distribuirlo erano dei frati di un convento, e che se lo chiedevi ti davano anche le coperte per dormire e i cartoni per farti la cuccia.
Hai fame? Ha chiesto un frate, quando è stato il mio turno. Ho immaginato cosa mi stesse chiedendo, e ho detto sì con il mento. Mi hanno dato due panini e due mele, ecco.
© 2010 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A - Milano

Tratto da Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccdrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini Castoldi Dalai editore, pp.156, euro 16

Fabio Geda è nato nel 1972 a Torino, dove vive. Si occupa di disagio minorile e animazione culturale. Scrive su «linus» e su «La Stampa» circa i temi del crescere e dell’educare. Collabora stabilmente con la Scuola Holden, il Circolo dei Lettori di Torino e la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura. Ha pubblicato i romanzi Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani (selezionato per il Premio Strega, Miglior Esordio 2007 per la redazione di Fahrenheit, vincitore del Premio Marisa Rusconi e, in Francia, del Prix Jean Monnet des Jeunes Européens) e L’esatta sequenza dei gesti (vincitore del Premio dei Lettori di Lucca). Gioca nell’Osvaldo Soriano Football Club, la Nazionale Italiana Scrittori.

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