Lo sceneggiatore e regista firma un giallo senza poliziotti e investigatori ambientato in una città lontana dai nuovi grattacieli e dal Bosco Verticale. E durante "Incipit", la rubrica di libri di Sky TG24, dice: "Quando si inizia a scrivere una storia non si sa mai come andrà a finire"
Per raccontare l’ultimo romanzo di Enrico Vanzina si può partire dalle prime parole di quello stesso romanzo o dalle ultime di questa intervista, è uguale. Iniziamo allora con le prime, che sono poi in realtà una citazione di Eugenio Montale ripescata da un numero di “Epoca” di mezzo secolo fa in cui il poeta dice: “Milano è un enorme conglomerato di eremiti”. È una frase che fa effetto, è vero, e deve aver fatto effetto anche a Enrico Vanzina tanto da averla messa in esergo al suo ultimo romanzo, intitolato “Una giornata di nebbia a Milano” (HarperCollins, pp. 208, euro 18) e con protagonista un giornalista poco più che trentenne che si ritrova a indagare sull’omicidio del padre.
"La cosa che va fuori moda prima di tutte le altre è il contemporaneo"
“Da romano - racconta Vanzina durante “Incipit”, la rubrica di libri di Sky TG24 - mi divertiva l’idea di gettare lo sguardo su questa città. Per farlo, ho preso il luogo comune più incredibile, quello della nebbia appunto, che non esiste più e che però anche in questo libro è simbolica: una cosa che nasconde ciò che rimane sempre uguale”. E allora niente piazza Gae Aulenti e Bosco verticale, dice lui, che ricorda come un giorno un suo amico architetto gli spiegò come la cosa che va fuori moda prima di tutte le altre è il contemporaneo. "Ecco - aggiunge - Milano ha puntato troppo sul contemporaneo, dimenticando i suoi cortili e le sue case di ringhiera, e io, in questo romanzo, ho cercato di farle rivivere insieme alla semplicità un po’ seria nascosta dietro alle porte dei condomini".
"Questa città la conosco molto bene - dice - a volte è molto conformista ma è pure in grado di dare messaggi di novità straordinari. Ci ho vissuto, la adoro, ci ho fatto molti film, sedici o diciassette, che credo abbiano dato un po’ di connotazione sociologica lasciando un segno preciso". E qui Vanzina cita “Eccezzziunale... veramente”, “Yuppies”, oppure un thriller come “Sotto il vestito niente”, prima di ricordare che in Italia la sua famiglia, la famiglia Vanzina, praticamente non esiste, che c’è solo un altro ramo e che quel ramo sono proprio gli ottici di Milano, per cui c’è un parte della famiglia che sta ancora lì.
"Quando si inizia a scrivere una storia non si sa mai come andrà a finire"
“Una giornata di nebbia a Milano” è il sesto romanzo di Enrico Vanzina, ma Vanzina è pure figlio di un grande regista (Steno), da piccolo è stato in braccio ad Alberto Sordi, ha conosciuto Aldo Fabrizi, ha scritto "Febbre da cavallo", "Sapore di sale" e altri cento film per il cinema e la televisione, e allora forse è inevitabile chiedergli che differenza ci sia tra scrivere per un lettore o uno spettatore. “Il racconto è centrale sia in un caso sia nell’altro”, risponde, e però subito dopo aggiunge che "al cinema c’è qualcosa di molto particolare: i grandi registi riescono a spiegare una cosa solo con le immagini e senza le parole; nel romanzo è invece un po’ più complicato”.
L'omaggio a Pinketts
Vanzina affida quindi il suo punto di vista a uno dei protagonisti di questo romanzo, uno scrittore che aiuterà il protagonista a districarsi in questo giallo senza poliziotti né investigatori. Nel libro, quel personaggio si chiama Giorgio Finnekans ma basta la giacca scozzese e il sigaro spento appeso alle labbra per capire che si tratta di un omaggio. “Andrea G. Pinketts è stato un grande autore, umanamente travolgente”, racconta, prima di ricordare il suo modo colto e intelligente di amare le donne, il whisky, il fumo e il vino. Ed è lui, o meglio il suo idealtipo immaginario, a puntellare nel romanzo il suo punto di vista narrativo: "L’intuizione iniziale è il soggetto, il tema, ma poi piano piano la storia ti prende per mano, non la conduci più tu, è lei che ti porta. Questo sistema secondo me è straordinario perché ti obbliga ad essere un po’ il lettore del tuo libro”.
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La città e la bocca cucita
L'intervista sta per finire, Vanzina parla ancora di libri, e parlando di libri torna a parlare di Milano anche quando, come alla fine di ogni puntata, dà i suoi consigli di lettura. Tira fuori i racconti di Giuseppe Marotta dedicati a “Le milanesi” in cui, dice, ci sono dei ritratti femminili formidabili; ricorda Gaetano Afeltra, di cui raccomanda “Milano amore mio”, l’omaggio malinconico di un uomo del sud che arriva nel capoluogo e ne rimane incantato. Cita “Tirar Mattina” di Umberto Simonetta che definisce (ma la citazione è presa in prestito da Oreste del Buono) una specie di giovane Holden milanese.
"Con questi tre libri non credo che si possa capire Milano", si schermisce, "ma si possono avvertire gli odori di una città complessa”. Vanzina torna così all'inizio di questo libro e di questa intervista, ricorda la frase di Montale su Milano e aggiunge questo: che in una città dove vivono degli eremiti c’è un mistero, e insieme al mistero c’è qualcosa di silenzioso e non gridato. "La differenza rispetto a Roma e Napoli è questa: che Milano tiene la bocca abbastanza cucita e che per questo è molto difficile da decifrare".