Turchetta: "Vi racconto il genio di Dino Campana nel Paese dei poeti-professori"

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Filippo Maria Battaglia

I CONSIGLI DI LETTURA Il lirico non è stato solo un grande eccentrico,  ma il suo merito è stato quello di aver saputo dare forma a una mirabile scrittura con tenacia, attenzione e con un lavoro aritigianale caparbio

E' stato il poeta pazzo e vagabondo del Novecento italiano per antonomasia. La sua storia è singolare ed eccezionale, il suo unico libro (“I canti Orfici”) è destinato a restare immortale. Ed è stata paradossalmente questa straordinarietà - come racconta Gianni Turchetta durante la rubrica Instagram di Sky Tg24 dedicata ai "Consigli di lettura" - a provocare la tentazione , frequentissima nei critici e negli studiosi, "di attribuire alla vicenda biografica ed editoriale di Dino Campana un di più di astrazione, di farne quasi una metafora".

Il poeta nel Paese dei lirici di professione

Proprio a Campana Gianni Turchetta ha dedicato una biografia, uscita da qualche settimana per Bompiani ("Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta": qui la recensione). "L'Italia - racconta Turchetta a Sky Tg24 - è stata troppo spesso un Paese pieno di poeti-professori. Ed è forse anche per questo che si è cercato di mitizzare lo squilibrio di Campana, facendolo combaciare con la sua poesia". 

"E' vero - spiega Turchetta - Campana è stato capace di dare forma a grandi contraddizioni, grandi lacerazioni e grandi squilibri; epperò - aggiunge il docente di Letteratura italiana contemporanea dell'Università degli Studi di Milano - se le sue fossero state solo semplici lacerazioni e squilibri, non sarebbe stato certo ricordato come un grande poeta. Il suo merito, invece, è stato quello di aver saputo dare forma a una mirabile scrittura con tenacia, attenzione e con un lavoro artigianale caparbio. Riuscendo così a parlare di contraddizioni che non sono solo sue ma di un'intera generazione vissuta alle soglie della prima guerra mondiale".

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Un aforista ironico e folgorante

Un lirico, ma anche un aforista straordinario. "A un certo punto - ricorda ancora Turchetta - Campana dice su di sé una frase memorabile, definendosi uno che si muove su una base di cafonismo carducciano sulla quale fa dei giochi d'equilibrio. E' un'affermazione folgorante e interessante per molti aspetti: non solo perché si autoaccusa in modo ironico di cafonismo (dando peraltro del 'cafone' anche Carducci); ma soprattutto perché chiarisce la sua preferenza per quest'ultimo anziché per D'Annunzio, sulla scia di una tradizione di severa artigianalità e di attenzione molto strenua al testo".

Ma quella definizione - spiega ancora Turchetta - è utile anche per un'altra ragione: "Parlando di giochi d'equilibrio, Campana con un cenno fa riferimento a molte cose, in particolare a due suoi numi: Baudelaire e Nietzsche. E così facendo, per un verso si riallaccia alla grande tradizione simbolista (cosa che in Italia sarebbe stata fatta dall'ermetismo solo un paio di decenni dopo); e, per altro, legge con straordinaria originalità il Nietzsche dell'eterno ritorno con una valorizzazione della vita nell'istante in cui accade. La vita, ci dice Campana, seppur dolorosa, ha una sua bellezza irriducibile. Oscura, certo, ma anche molto luminosa".

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