Affinati: "Racconto 300 città da Charkiv a Gerusalemme, ma Roma resta la più enigmatica"

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Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

Una raccolta di brevi ritratti urbani che comincia a Charkiv e si chiude a Gerusalemme, luogo di speranza, passando per la Città Eterna, "beata e sorniona". Abbiamo incontrato l'autore a Torino dove ha presentato la sua guida per "re-imparare" a viaggiare

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Nell’epoca dei weekend mordi e fuggi, delle stories su di Instagram come diario di bordo che si autodistrugge in 24 ore e degli itinerari concepiti come liste della spesa per spuntare quanti più luoghi possibile, c’era bisogno di un libro che ci ricordasse la differenza tra viaggiare e spostarsi, tra guardare e vedere, tra visitare e presenziare. E quel libro è “Le città del mondo” (Gramma Feltrinelli) di Eraldo Affinati. La sua raccolta di brevi ritratti urbani, in cui la sintesi estrema fa da antidoto alla superficialità, attraversa il globo da Manhattan al Borgo Vecchio di Palermo. Un percorso a cavallo tra memoria e attualità che prende avvio simbolicamente dalla Grande Mela. New York è profetica - è e resterà, come scrive Affinati, “la madre di tutte le città moderne" - e al tempo stesso distopica nella sua “marcia verso il nulla”. Abbiamo incontrato Affinati al Salone del Libro di Torino.

 

Partiamo da “Qual è il nesso?”, una domanda che si pone lei stesso tra le pagine del libro. Ha trovato una risposta definitiva?

Il filo rosso che lega queste 300 città è il mio sguardo e la mia volontà di tenerle unite attraverso la mia vita di scrittore, insegnante e viaggiatore, mentre la scintilla è l’incontro umano: dall’anziana che ho visto a Benares, al vagabondo sorpreso al risveglio una mattina al Giardino degli Aranci, fino al bambino ucraino che ha frequentato i corsi di italiano alla scuola Penny Wirton che ho fondato con mia moglie Anna Luce Lenzi sedici anni fa.

 

È per questo che tutto inizia a Charkiv?

Ho conosciuto Aleksandr e ho capito che avrei dovuto partire per l’Ucraina. Non so spiegare a parole razionali perché io abbia avuto quell’illuminazione improvvisa.

 

Nel libro scrive che è stato “per dare senso all’esperienza”.

È stato grazie a quel bambino silenzioso che ho deciso di visitare quella città bombardata e distrutta dalle bombe di Putin e lì che ho misurato l’avvelenamento dei pozzi e delle coscienze, oltre alla la distruzione dei palazzi.

 

Del resto, la scrittura di un libro su "Le città del mondo" in questo momento storico non poteva prescindere dalla guerra. Ha trovato della speranza?

Ho voluto chiudere il libro a Gerusalemme perché in fondo Gerusalemme le riassume tutte: è la città che ha fatto piangere Gesù e che fa piangere tutti noi oggi. Là è depositato il grande groviglio irrisolto della civiltà, con cui chiudo il mio libro. Io spero, credo, penso che la pace possa passare proprio da lì. Racconto non a caso la storia di un’amicizia tra una famiglia palestinese e una famiglia ebrea. Osservando questa amicizia ho capito che c’è la possibilità di ricostruire questo ponte distrutto. lo dobbiamo volere tutti, ma è solo attraverso il recupero dell’umanità, l'incontro di dolori, che si può trovare una conclusione al dramma israelo-palestinese. Al di là di tutto questo, c’è Gerusalemme come la città che più di ogni altra rappresenta l’epica, l’invenzione, il sogno e la conoscenza.

 

A proposito di invenzione e conoscenza, divide i suoi 300 ritratti in tre sezioni: città inventate, conosciute, sognate. Ce n’è una che prima di scrivere questo libro forse sottovalutava?

Paradossalmente proprio Roma, quella in cui ho sempre vissuto e che guida la sezione delle città inventate. Roma te la puoi inventare tutti i giorni, dipende dal tuo sguardo, dalla tua esperienza, dalla tua passione, dal tuo sentimento: è uno specchio.

 

Chiunque scriva una raccolta di racconti con un tema come il suo, le città, non può non aver fatto i conti, prima o dopo, con Calvino e le sue “città invisibili”. Come lo ha affrontato?

Nel mio libro ci sono degli intermezzi lirici che scandiscono il percorso del lettore e in uno di questi mi contrappongo alle sue città invisibili erigendo un mio immaginario, una mia toponomastica lirica alternativa, poco intellettuale e molto basata sulla conoscenza diretta delle persone, perché questo, come ho subìto sottolineato, è un libro che nasce nella scuola Penny Wirton. Ognuno dei nostri ragazzi, dei nostri studenti incarna una città.

 

L’insegnamento è una parte importante della sua vita.

Io sono uno scrittore-insegnante e non ho mai sentito una scissione fra i due ruoli. Ho sempre fatto dell'insegnamento materia di scrittura, uno dei miei primi libri si intitola “Veglia d'armi” e tratta del più grande scrittore-insegnante dell’epoca moderna: Tolstòj. Appena entrato in una classe, da neolaureato in Lettere, ho sentito uno spazio magnetico tra me e loro e ho portato dentro di me in ogni occasione, fuori dall’aula, la passione pedagogica.

 

Quanto ne sanno delle città in cui vivono i suoi giovani studenti?

I ragazzi di oggi si accontentano della conoscenza virtuale, io li spingo a sporcarsi le mani, li invito a uscire, il che significa anche uscire dallo schermo: un lavoro che li porterebbe alla vera conoscenza. Ma per fare questo salto hanno bisogno dell’accompagnamento degli adulti, di essere stimolati e aiutati.

 

Quale dovrebbe essere il ruolo della scuola?

Dovrebbe aiutare a ritrovare le connessioni con l’esperienza e a ripristinare le gerarchie di valore in quello che è il mare magnum della rete.

 

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