La tassa nei confronti dei giganti come Amazon, Google o Facebook è stata annunciata dal governo britannico che renderà effettivo il provvedimento dal 2020. Nell'Ue, e ancor prima in Italia, si era già parlato di web tax. Ecco cosa potrebbe succedere ai colossi digitali
Tassare i giganti del web come Amazon, Google o Facebook: è questo l’obiettivo della Digital Tax. Nel Regno Unito, in piena fase Brexit, entrerà in vigore dall'aprile 2020, sarà mirata sui profitti generati dalle piattaforme digitali dei "giganti hi-tech" e riguarderà solo le aziende con ricavi da 500 milioni di sterline in su. Non si tratterà dunque di imposte sulle vendite online ma sui servizi digitali che offrono le aziende. Londra prevede grandi introiti per le casse britanniche con guadagni che sono stimati in 400 milioni di sterline all’anno. Un’anticamera di Digital tax nel Regno Unito era già stata introdotta nel 2015 con il cosiddetto Diverted profits tax (Dpt) che prevede una tassazione del 25% solo in due situazioni ben precise: se la società si trasferisce in Paesi a più basso prelievo fiscale, oppure se si tratta di una stabile organizzazione non residente ma che comunque vende beni o servizi sul territorio nel Regno Unito.
La Web tax nell'Ue e la differenza con la Digital tax
L’idea di tassare i guadagni delle grandi compagnie online, che siano big dall'e-commerce, della pubblicità online o della trasmissione dati, era già presente in diverse proposte presentate sia a livello europeo a Bruxelles sia dai singoli governi. La Commissione europea ha proposto nel marzo del 2018 la cosiddetta Web tax (COSA È), una soluzione temporanea e non ancora effettiva. Il progetto di Bruxelles è quello di una aliquota al 3% sul fatturato dei colossi del web, laddove per fatturato si intendono: ricavi da vendita di spazi pubblicitari (come Google), cessione di dati (come Facebook), attività di intermediazione tra utenti e business (come Uber). Anche in questo caso, ci sono dei parametri per i quali un’azienda viene tassata ma sono diversi rispetto a quelli decisi dal Regno Unito. In particolare, la Web tax riguarda società con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro ed uno europeo sopra i 50 milioni. Bruxelles stima introiti per almeno 5 miliardi all'anno e conferma che la tassa "assicura che le attività che oggi non vengono tassate comincino a generare introiti immediati per gli Stati membri".
La situazione in Italia
L’argomento Web tax, che in Europa è stato affrontato il 21 marzo 2018, era già presente nell’agenda politica italiana del governo Renzi. Nel nostro Paese, infatti, una Web tax era stata prevista dalla Legge di Bilancio 2018 ed entra in vigore dall’1 gennaio 2019. In questo caso, si tratta di un’imposta sulle transazioni digitali relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici. L’aliquota dell’imposta, secondo quanto previsto dall’emendamento, è pari al 3% (in un primo momento era stato stabilito il 6%) e si applica per le singole transazioni digitali. Il prelievo è limitato alle società che fanno oltre 3 mila transazioni nell’anno solare e il gettito atteso ammonta a 190 milioni su base annua. La base imponibile è stata valutata in 6,34 miliardi, tre volte la sola base imponibile (oltre 2 miliardi) della pubblicità online. In realtà, nel nostro Paese, con la legge di stabilità 2014, si era già realizzato un primo tentativo di tassazione dei prodotti digitali. Una misura però mai entrata in vigore, perché prima sospesa con un decreto e poi definitivamente abrogata (DL 16 del 6 marzo 2014). Prima della Web tax, era stato lo stesso Renzi a parlare di una Digital tax tutta italiana: la proposta prevedeva che ad ogni transazione diretta ai colossi che vendono dall'estero servizi digitali in Italia sarebbe stata applicata una ritenuta del 25%.
Il caso dell’India
A livello internazionale, chi ha già introdotto una sorta di Digital tax è l’India, dove è in vigore “l'equalization levy”. Si tratta di una forma di prelievo a carattere compensativo che parte dall'obiettivo di garantire lo stesso trattamento tra operatori domestici ed estero. Un modello che è stato analizzato anche da alcuni Paesi europei anche se non è stato adottato in maniera ufficiale.