Fondi Ue, tutte le incognite per l'Italia

Economia

Il policy brief della School of Government della Luiss. Di Luciano Monti, docente di Politiche dell’Unione europea

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L'analisi della School of Government della Luiss su tutte le sfide che il nostro Paese dovrà affrontare per riuscire a utilizzare davvero i fondi europei per la ripresa

Il dibattito pubblico italiano, da qualche settimana, sembra monopolizzato dall’alternarsi di solenni promesse e reiterati inviti a “spendere bene” e “spendere subito” le risorse stanziate dall’Unione europea per la ripresa dell’economia, dopo la fase acuta della pandemia da Covid-19 (LO SPECIALE). I circa 209 miliardi di euro che spettano pro quota all’Italia nell’ambito del piano europeo “NextGenerationEu” sono ormai il convitato di pietra di ogni confronto intellettuale o parlamentare o televisivo che si rispetti. Per non trasformare l’evocazione di simili risorse in un rito stanco e ripetitivo, in questa sede esamineremo alcune delle maggiori criticità che l’Italia dovrà risolvere pena non riuscire a sfruttare in concreto l’occasione che ha di fronte.

I rischi di una pianificazione inadeguata

Lo sforzo preliminare da compiere, non solo per ragioni accademiche o di stile, è quello di fare chiarezza sui termini in gioco. Il sempre citato “Recovery Fund”, o “Fondo per la ripresa”, è in realtà una versione colloquiale di quella che propriamente si chiama “Recovery and ResilienceFacility”. Se a un “Fondo per la ripresa” potrebbero essere implicitamente attribuiti obiettivi di breve periodo, come appunto il sostegno alla crescita del Pil subito dopo la caduta dello stesso associata alla fase acuta della pandemia, il riferimento esplicito alla “resilienza” da parte di Bruxelles è invece l’indicatore inequivocabile di un obiettivo di medio-lungo termine, cioè impedire che nell’arco di pochi anni si torni indietro a livelli e modelli di crescita rispettivamente insufficienti e insostenibili. Inoltre, ricordare che abbiamo a che fare con una “facility”, nel gergo europeo, serve a sottolineare che tale strumento fa parte di un piano più ampio, il “NextGenerationEu”, la cui enfasi è (letteralmente) sulle generazioni di europei che verranno dopo di noi. Tali precisazioni terminologiche aiutano a non perdere di vista che il problema della “pianificazione” delle iniziative da finanziare con le risorse comunitarie, affinché questi siano efficaci nel medio-lungo termine, è centrale in questa fase. Non a caso gli Stati membri sono esplicitamente invitati dalla Commissione europea, nelle sue linee guida dello scorso 17 settembre per l’utilizzo della facility, a concepire una sorta di “politica industriale” di medio-lungo termine, senza scegliere oggi “vincitori e vinti” nel mondo privato ma identificando filiere industriali da sostenere, a partire da quelle utili per una transizione verde e digitale delle nostre economie, i principali pilastri della resilienza detta “trasformativa”.
In particolare, ogni Stato membro dovrà identificare con chiarezza i capitoli di spesa chevuole alimentare con contributi e finanziamenti europei, dovrà farlo coinvolgendo il Parlamento, e questo fa capire perché per l’Italia il momento più adatto per la predisposizione dei progetti da finanziare non possa che essere l’iter di approvazione della Legge di Bilancio. Solo così ci sarebbe realisticamente il tempo per presentare i progetti e la necessaria documentazione a Bruxelles entro la prossima primavera.

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I rischi di una gestione conflittuale tra Stato e Regioni

Sempre le linee guida dell’Unione europea invitano ogni Stato membro a identificare un’Agenzia centralizzata che non abbia soltanto poteri di controllo e supervisione ex post sui fondi di “NextGenerationEu”, ma anche poteri specifici per utilizzare le risorse e implementare i progetti, insomma poteri di spesa. Al nostro Paese sarebbe dunque richiesto un ulteriore passo in avanti rispetto all’Agenzia per la Coesione Territoriale creata nel 2013 proprio su input di Bruxelles per la gestione delle risorse della programmazione 2014-2020. Oltre al necessario aggiornamento istituzionale, si pone per l’Italia un primo problema politico: quante chance di successo ci sono per un’Agenzia che accentri su di sé i poteri di controllo e attuazione dei progetti, in una fase storica in cui gli equilibri politici vedono da una parte un Governo centrale con una maggioranza Movimento 5 Stelle-Partito democratico e dall’altra parte quindici Regioni (su venti) governate dall’opposizione di centrodestra? Non dimentichiamo inoltre che, sempre nella primavera dell’anno prossimo, sarà data attuazione anche alla programmazione 2021-2027, prevalentemente a trazione regionale e che, auspicabilmente, non ci dovranno essere sovrapposizioni di interventi con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Insomma non è inverosimile, considerate le numerose competenze delle Regioni su materie importanti come la Sanità e non solo, prevedere attriti su questo fronte. Come attrezzarsi per disinnescarli?

I rischi di una attuazione inconcludente

Fuor di retorica, e ammesso che progetti adeguati saranno presentati per tempo, l’Italia sarà poi in grado di spendere gli ormai celebri 209 miliardi di euro? Tanti indizi fanno temere il peggio. Si prendano le risorse della programmazione dell’Unione europea per il periodo 2014-2020. Al nostro Paese spettavano in questo caso circa 72 miliardi di euro tra risorse europee e risorse di cofinanziamento nazionali. Alla fine deI primo semestre del 2020, ne abbiamo impegnati 61,08 miliardi e ne abbiamo spesi solo il 40%, cioè 28,8 miliardi. Vero è che c’è la possibilità di rendicontare le spese sostenute sino alla fine del 2023, ma anche la tempestività di un intervento rileva per la sua efficacia (si pensi, fra i tanti esempi possibili e diventati ormai perfino celebri, ai ritardi accusati dalla ristrutturazione della linea ferroviaria Bisceglie-Corato in Puglia) Se non siamo riusciti a spendere per tempo le risorse della attuale programmazione europea, proviamo a ipotizzare cosa potrà accadere nei prossimi anni in cui si sommeranno gli “arretrati” della suddetta programmazione, la nuova programmazione e la Recovery and ResilienceFacility. Parliamo in tutto di 100 miliardi di euro di spesa potenziale per il prossimo triennio, tra contributi europei e fondi nazionali, finanziamenti SURE e MES (qualora fosse attivato), eppure la nostra capacità di spesa è più bassa, molto più bassa.

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La tentazione della corsa ai finanziamenti “a pioggia”

Il motivo principale dietro questa conclamata incapacità di spendere le risorse comunitarie, in passato, è stato l’elevato numero di micro-progetti, una riedizione della corsa ai finanziamenti “a pioggia” che caratterizzò alcune fasi dell’interventismo pubblico nella Prima Repubblica. Nel ciclo di programmazione 2014-2020, per esempio, i progetti presentati per essere finanziati sono stati sinora 642.888, per una media di poco più di 30.000 euro di finanziamento previsto per ogni progetto. Di questi attualmente solo il 6% sono stati conclusi e solo il 2% liquidati. In linea teorica non è impossibile presentare e finanziare un numero simile di progetti, ma una cifra così elevata diventa spaventosa se rapportata alla capacità di seguire poi ogni singolo progetto da parte della nostra macchina amministrativa. Si sente ripetere spesso che alla nostra P.A. manca “la capacità di progettazione”. In realtà di inventiva ce n’è eccome, a volte verrebbe da dire fin troppa! Il problema è l’esiguo numero di funzionari pubblici dotati delle capacità adatte per dar seguito ai progetti selezionati che hanno un flusso amministrativo annesso non indifferente. Manca di conseguenza la capacità di assicurare a dei progetti validi tutto quello che è necessario per portarli a termine in tempo. Quali indicazioni trarne dunque per il futuro? Sarebbe meglio per l’Italia optare per pochi macro-progetti, le cui linee guida potrebbero essere dettate dal Governo centrale e la cui attuazione magari potrà essere gestita dalle Regioni in un contesto di riforme per una ulteriore semplificazione amministrativa. Le prime indiscrezioni non sembrano purtroppo andare in tale direzione. Se i “mega-progetti” pensati a Roma sono già nell’ordine di qualche centinaio, figuriamoci a che numeri di progetti finali e relativi beneficiari potremmo arrivare.

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Il rischio di utilizzare risorse nuove per problemi vecchi

C’è ancora del tempo per correggere la rotta ma le anticipazioni giornalistiche hanno descritto, tra l’altro, un’improvvisa corsa a “tirare fuori dai cassetti” dei Ministeri progetti datati e accantonati negli anni per mancanza di fondi o per l’incapacità di utilizzo degli stessi. Se ne desume che questi progetti, se erano già pronti a centinaia, non siano affatto nuovi o nemmeno opportunamente rivisti sulla base di mutate esigenze. Dunque, quali garanzie abbiamo che tali progetti di cui si è parlato finora sulla stampa siano davvero rispettosi dello spirito che abbiamo detto innervare il piano per la ripresa “NextGenerationEu”? Finanziare la costruzione del Ponte di Messina, tanto per citare un evergreen italiano di questi dibattiti sulle opere pubbliche, è forse in linea con le priorità della transizione verde e digitale prospettata da Bruxelles e concordata anche dai capi di Governo dell’Unione? L’idea di utilizzare risorse nuove per provare a risolvere problemi vecchi rischia di trasformarsi in un boomerang nel momento in cui i progetti italiani saranno valutati a livello europeo (con forme di potere di veto, lo ricordiamo, di altri Stati membri che potrebbero ritenere non all’altezza i progetti altrui). 

L’illusione della manna (europea) dal cielo e le sue conseguenze

L’ammontare di risorse europee a sostegno della ripresa italiana è senza precedenti. Tuttavia, dietro la cifra-totem dei 209 miliardi di euro in sette anni, si celano alcuni dettagli di non poco conto. Innanzitutto la maggior parte di queste risorse, circa 127 miliardi di euro su 209 miliardi, è costituita da prestiti che il nostro Paese dovrà rimborsare entro il 2056. Secondo una mia prima stima, nel periodo di programmazione 2021-2027, tra Recovery and ResilienceFacility, fondi strutturali europei classici, finanziamenti SURE e MES (ammesso che si decida di attivare anche quest’ultimo), l’Italia riceverà ogni anno come finanziamenti a fondo perduto – cioè tenendo conto dei contributi che versiamo a Bruxelles – circa 310 miliardi nel prossimo settennio, dunque una quarantina all’anno. Se tuttavia a questo importo sottraiamo le somme acquisite “in prestito” e dunque da restituire (circa 190 miliardi) e gli esborsi che il nostro Paese è chiamato a sostenere per alimentare il quadro finanziario pluriennale 2021-2027 (si stima circa 15 miliardi all’anno e dunque 105 in totale) e il fondo MES (14 miliardi già messi a disposizione per nuova quota del capitale), il saldo attivo nel periodo si attesta soltanto su 1 miliardo (310 miliardi di risorse complessive a cui sottrarre: 190 miliardi di prestito, 105 miliardi di quota QFP, 14 miliardi di quota MES). Se considerassimo “investimento” il nuovo capitale versato dall’Italia nel MES, il saldo sarebbe di 15 miliardi, vale a dire poco più di 2 miliardi all’anno. Tutto ciò vuol dire che stiamo spendendo soprattutto risorse che non sono nostre ma di altri contribuenti europei o dei contribuenti italiani che verranno dopo di noi, e questo dovrebbe comportare una responsabilizzazione ancora maggiore nella corsa contro il tempo per riuscire a sfruttare le risorse europee per la ripresa.

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