Riforma pensioni, governo cerca flessibilità senza rovinare i conti

Economia

Simone Spina

L’obiettivo è una maggiore flessibilità per l’uscita dal lavoro. Ma il principale nodo da sciogliere è quello dei costi. Molte le proposte sul tavolo per ammorbidire i criteri stabiliti con la legge Fornero

Rendere l'uscita dal lavoro più flessibile senza mettere a repentaglio i conti pubblici. Si parte da qui per l'ennesima riforma delle pensioni, la sesta in meno di trent'anni, che il nostro Paese ha in cantiere. Due punti di partenza difficili da conciliare, perché permettere di prendere l'assegno dell'Inps prima di quanto finora stabilito rischia di diventare molto costoso per i nostri conti pubblici.

Superare la legge Fornero

L'intento è quello di ammorbidire i principi della legge Fornero del 2011, varati nel pieno della crisi del debito e che ha allontanato l'orizzonte della pensione. Orizzonte peraltro non del tutto rigido perché in realtà l'età media di pensionamento attualmente è di poco sopra i 62 anni, visto che esistono diverse forme di anticipo, tra cui "Quota 100". Questo meccanismo, che permette di lasciare il lavoro con almeno 62 anni di età e 38 di contributi, è entrato in vigore all'inizio del 2019 e finirà la sua corsa nel 2021. Dall'anno successivo, quindi, riprenderebbero vigore i criteri generali, con la pensione a 67 anni di età (o 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne), salvo restante tutte le altre forme di anticipo esistenti.

In pensione a 64 anni

Nel governo si vuole evitare che, una volta esaurita Quota 100, si verifichi un salto (il cosiddetto scalone) dell'età per lasciare il lavoro. Evitare questo balzo però rischia di essere troppo dispendioso, quindi alcune delle ipotesi su cui si ragiona sono di un sostanziale compromesso. E cioè: fissare il traguardo a 64 anni di età. Questo però non basta a salvare le casse dello Stato. Ecco perché si pensa di permettere di andare in pensione al 64esimo compleanno e con 37-38 anni di versamenti all'Inps ma ricalcolando tutto col sistema contributivo. Questo vuol dire, in pratica, che la pensione sarà basata su quanto effettivamente negli anni si è dato all'istituto di previdenza, senza tenere conto, quindi, dell'entità degli stipendi percepiti (sistema retributivo). Il risultato è che, in questo modo, la pensione sarebbe più bassa per coloro che solo in parte ricadono nel sistema contributivo, in vigore dal 1996. Questa soluzione fonda le sue radici sul concetto che chi vuole ritirarsi in anticipo deve pagarne il prezzo, un po' come accade ora (almeno in parte) per Quota 100, che forse anche per questo ha avuto meno successo del previsto e che potrebbe finire per costare 4,5 miliardi di euro in meno di quanto stimato.

La proposta dei sindacati

C'è chi, come i sindacati, invece, vorrebbe permettere di andare in pensione a partire da 62 anni di età e un minimo di 20 anni di versamenti, ma senza penalizzazione per chi ricade nel sistema misto retributivo-contributivo. Si tratta di una strada che però potrebbe essere troppo dispendiosa.

L'idea dell'Inps

Un'altra soluzione potrebbe essere quella avanzata dal presidente dell'Inps. Pasquale Tridico propone di fissare una linea di età per l'uscita, col lavoratore libero di scegliere quando andare in pensione. Il tutto però col ricalcolo contributivo, che - comunque - varrà per tutti dal 2036. Anche in questo caso, chi scegliesse l'anticipo si ritroverebbe con un assegno più leggero.

Una riforma ambiziosa

Insomma, le ipotesi sul tavolo sono molte e arrivare a un punto che accontenti tutti appare complicato. La materia è complessa e delicata, sia dal punto di vista economico sia da quello politico. L’Italia è uno dei Paesi col più alto numero di anziani in rapporto alla popolazione e per le pensioni si spende oltre il 16% del reddito nazionale. Di più – per fare un esempio - dell’istruzione.

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