Produrre Bitcoin è sempre più costoso: un caso italiano

Economia

Chiara Piotto

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Mano a mano che generare Bitcoin diventa più difficile, sempre più aziende scelgono di abbandonare il mercato. E il valore della più nota tra le criptovalute cala

“Il mining domestico è morto. Ma a livello industriale è ancora vantaggioso”. A parlare è Gabriele Stampa, cofondatore di Bitminer Factory, la prima azienda italiana per l’estrazione industriale di Bitcoin e altre criptovalute. Il “mining” consiste nel generare criptovalute facendo risolvere a un computer complessi algoritmi; un’attività sempre più complessa e dispendiosa mano a mano che ci si avvicina ai 21 milioni, il numero massimo di Bitcoin consentito dal sistema (siamo arrivati a circa 17 milioni).

I costi per "Minare" Bitcoin in Italia

A gennaio 2018 eravamo stati nella sede di Calenzano, provincia di Firenze, quando Bitminer Factory era stata da poco avviata. I fondatori ci avevano raccontato con orgoglio di aver accettato la sfida e scelto di rimanere in Italia, dove i costi dell’energia elettrica e della forza lavoro sono meno competitivi rispetto ad altri Paesi del mondo, come la Cina o l’Islanda, notoriamente mete predilette delle aziende che estraggono bitcoin. Un anno dopo, per continuare a svolgere la propria attività, Bitminer Factory deve aprire lo sguardo anche all’estero. “Parlare di sopravvivenza non è corretto”, dice Stampa, “il settore delle criptovalute sta cambiando e noi ci adeguiamo al processo in corso. A generare Bitcoin sono organizzazioni sempre più centralizzate, strutture composte da migliaia di computer, come anche noi vogliamo diventare. Fare “mining” nel proprio garage non ha più senso ormai da tempo”.

Estrarre Bitcoin costa troppo?

“Minare” criptovalute ha dei costi variabili, dati principalmente dall’acquisto e dalla gestione dell’hardware, dall’energia elettrica e dalla forza lavoro. Con le continue fluttuazioni al ribasso del valore del Bitcoin, che dopo le massime di inizio 2017 è sceso sotto i 4000 euro, minare è diventato più dispendioso che profittevole. In poche parole, per molti operatori non ne vale più la pena.

I Paesi più competitivi

A dirlo sono gli analisti di JP Morgan, secondo cui i costi medi di estrazione di un Bitcoin sono - al momento - di circa 4000 dollari. I “miner” low cost, in particolare quelli cinesi che possono usufruire di grandi quantità di energia elettrica e forza lavoro a prezzi stracciati, riuscirebbero ad abbattere i prezzi fino a 2400 dollari a Bitcoin. Ma gli altri operatori si trovano di fronte a un bivio: abbandonare il mercato o no?

Il futuro è delle valute stabili

La maggior parte non ha ancora lasciato il settore, dicono gli analisti di JP Morgan, ma l’estrazione si sposta sempre più verso i Paesi che permettono di abbattere i costi, come la Repubblica Ceca e l’Islanda. Segno che non sia il concetto di blockchain e Bitcoin a essere entrato in crisi, ma il sistema organizzativo-economico su cui si è basato fino ad ora. E in attesa che venga ristrutturato, il futuro potrebbe essere dei “stablecoin”, criptovalute dal prezzo non volatile che però sono ancora in una fase embrionale di sviluppo.  Stampa ne è convinto: “I stablecoin sono il futuro, perché rendere stabile il valore della criptovaluta significa portarla più vicina al pubblico”.

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