Violenza donne, cos'è il CAM e perché è importante lavorare con gli uomini maltrattanti

Cronaca
Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

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Per prevenire la violenza di genere è necessario educare, e rieducare. Il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti opera dal 2009 e costruisce percorsi di gruppo per uomini violenti, anche dopo il carcere. "Un aspetto culturale su cui è cruciale lavorare è la decostruzione della mascolinità, imparando a parlare delle proprie emozioni", spiega la presidente Alessandra Pauncz a Sky TG24. "I più giovani? Urgente educarli alla sessualità"

Mancano ancora quattro mesi alla fine del 2023 e dall'inizio dell'anno sono decine le donne uccise, centinaia gli stupri (quello di gruppo avvenuto a Palermo che ha particolarmente scosso l’opinione pubblica per via dell’efferatezza e della giovane età dei carnefici è solo l’ultimo). Non passa un giorno in cui le cronache non raccontino violenze di genere ormai quasi normalizzate per la frequenza che le riguardano. Mentre il vicepremier Salvini commentando i fatti di Palermo invoca la castrazione chimica, è necessario chiedersi quali strumenti si possono mettere in campo per prevenire la violenza maschile sulle donne, e per rieducare gli uomini che l’hanno commessa. Uomini, va sottolineato, non mostri o animali come nelle ultime ore si tendono spesso a dipingere gli stupratori di Palermo nel tentativo di de-umanizzare i colpevoli, per prenderne più facilmente le distanze. “Serve una riflessione seria, soprattutto politica, su come fermare questa escalation”, osserva Alessandra Pauncz”, la presidente del CAM, Centro di Centro di ascolto uomini maltrattanti che dal 2009 accoglie uomini che hanno commesso violenza psicologica o fisica e li accompagna in un percorso che chiede loro una presa di consapevolezza prima di un cambiamento, quando è possibile. Perché – insieme alla certezza della pena e al percorso detentivo – è solo lavorando con loro, i maltrattanti, che si può sperare di operare un cambiamento emotivo e culturale.
Alcuni degli uomini che segue il CAM ci arrivano attraverso un percorso giudiziario, mentre molti altri arrivano spontaneamente, “solitamente sull’orlo di una crisi”, spiega la presidente, o vengono spinti da qualcuno, come la compagna o la madre dei loro figli.

Parlare con gli uomini della violenza

“Nei nostri percorsi parliamo con gli uomini della violenza. Sembra scontato, mentre invece uno dei problemi dell’accesso degli uomini all’aiuto per fermare la violenza il prima possibile è proprio che è difficile parlarne. Lo è sia per gli uomini che per gli operatori”. Inoltre non tutti gli autori di violenza sono consapevoli di esercitarla. Un esempio è additare la vittima di uno stupro con l’argomentazione che era ubriaca, che la colpa era sua, come spesso accade. “In quel caso serve un lavoro ulteriore per giungere alla presa di consapevolezza”.

Percorsi di gruppo dai sei agli otto mesi

Quando un uomo si rivolge al CAM – che oggi conta quattro sedi (Firenze, Nord Sardegna, Cremona e Ferrara) – viene invitato innanzitutto a un colloquio individuale con gli operatori per capire qual è il problema e se può intraprendere un percorso, spiega la dottoressa Pauncz. “In caso positivo viene poi inserito in un gruppo psico-educativo insieme ad altri uomini che condividono le stesse problematiche e si lavora soprattutto sulla motivazione per la quale si è commessa una violenza”. Finito il percorso, che dura dai sei agli otto mesi con incontri settimanali co-condotti da due operatori, a frequenza obbligatoria (dopo tre assenze non è più possibile prendere parte al gruppo), il partecipante “può decidere insieme a noi se partecipare a un nuovo gruppo oppure scegliere un percorso psicologico individuale con i nostri operatori”. 

Negare o minimizzare la violenza

La violenza maschile sulle donne è un fenomeno trasversale che riguarda tutte le classi sociali, osserva la presidente, ma la maggior parte di questi uomini manifesta degli elementi in comune: “Minimizzano tutti la violenza quando non la negano proprio, e attribuiscono la responsabilità degli abusi alla partner. Dare la colpa a lei anziché a sé stessi è una prima importante barriera al cambiamento, e il lavoro deve iniziare da lì, mostrando letture diverse che i partecipanti devono elaborare”. 

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Decostruire la mascolinità tossica

Un aspetto culturale e sociale su cui è cruciale lavorare, spiega la dottoressa, è la decostruzione della mascolinità: Vediamo spesso una fortissima difficoltà in questi uomini nel riconoscere le emozioni e le fragilità. All’inizio del percorso sono molto diffidenti, non vogliono entrare nel gruppo, a volte si accusano a vicenda”. E’ dopo alcuni incontri che inizia a intravedersi un segnale di cambiamento: ”Solitamente dopo due o tre mesi iniziano a conoscersi meglio, a fidarsi tra loro e comunicano in modo diverso. Cominciano quindi a parlare delle proprie emozioni e dei propri errori”. Sottolinea la dottoressa Pauncz che quello che affrontano al CAM “è un percorso fatto anche per mettere loro in difficoltà: ci si confronta con gli altri rispetto ad azioni di cui ci si vergogna, ci si sente a disagio. Noi dobbiamo creare uno spazio in cui le persone possano essere messe nella condizione di esplorare questo disagio, di entrarci in contatto. Solo in questo modo può avvenire un cambiamento”. 

Rieducare anche dopo il carcere

Educazione e rieducazione sono motore di un’evoluzione emotiva e culturale che ovviamente non giustifica i carnefici, chiarisce la presidente. “Ascoltarli è necessario, ma sia chiaro: non significa che il nostro compito è coccolarli, né che vogliamo aiutarli a non scontare le pene che devono. Anzi: se prima una volta usciti dal carcere tornavano nella società spesso senza aver compiuto una riflessione seria su quanto commesso, molti uomini dopo la sospensione della pena vengono al CAM e intraprendono un percorso”.

La valutazione finale sui percorsi

Non per tutti i maltrattanti il percorso funziona, ma per la maggior parte di loro sì. “Non tutti cambiano, non abbiamo la bacchetta magica”, spiega la dottoressa, “ma possiamo affermare che la maggior parte di loro sviluppa la capacità di riconoscere i danni che i loro comportamenti hanno provocato”. Il risultati vengono analizzati e valutati esternamente (con una raccolta dei dati avvenuta in tre momenti: all’inizio del percorso, a metà e alla fine) da un report europeo (si può leggere qui alla voce "Report Impact") dal quale emerge “che la violenza alla fine del percorso è diminuita: quella fisica nella maggior parte dei casi si è interrotta, quella psicologica si è ridotta".

Il coinvolgimento delle partner

Il percorso che si svolge al CAM non riguarda solo gli uomini: “Di solito contattiamo anche le partner, ovviamente nel caso in cui diano il loro consenso”, racconta la dottoressa, sottolineando che il loro coinvolgimento è “funzionale” al percorso e “non ha nulla a che fare con una mediazione”. “La donna viene contattata per fornire informazioni sul compagno o ex, per fare insieme a lei una rilevazione del rischio, e per farci raccontare la sua versione dei fatti. Inoltre ci assicuriamo che sia al sicuro e sarà avvisata da noi se l’uomo deciderà di interrompere il lavoro”.

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I pericoli dell'accesso precoce alla pornografia  

Commentando il caso di Palermo e la giovane età degli autori dello stupro di gruppo, Pauncz sottolinea l’urgenza di parlare anche con i ragazzi, nelle scuole e non solo: “Dobbiamo trovare un linguaggio per comunicare con loro”. Un tema di cui non si parla è l’accesso precoce al porno. “I dati dicono che i ragazzi accedono al materiale pornografico prestissimo, intorno ai nove anni. Con i cellulari è immediato, oltre che traumatico. Alcuni di loro cercano online il significato di cose di cui sentono parlare e si trovano davanti a immagini pornografiche violente, che nulla hanno a che fare con quello che serve per costruire una relazione sana uomo-donna”. Quello che è più grave, osserva la dottoressa, è che senza strumenti diversi “iniziano a pensare che il sesso sia quella cosa lì. E questo è pericoloso. E’ necessario che noi adulti parliamo con loro”, afferma.

L'educazione affettiva e sessuale ancora tabù

In Italia, a differenza di molti altri Paesi europei, “mancano l’educazione affettiva e sessuale sia a scuola che in famiglia. Ci sono ancora tabù da scardinare in questo senso, ed è ora di farlo”. Non parlare di sesso ai ragazzi può avere conseguenze gravissime, mentre parlarne nel modo corretto può prevenirle. Così come è importante restituire una narrazione pulita dei casi che raccontano le violenze "priva di dettagli morbosi" e "senza deumanizzare i carnefici, spesso hanno persino l'aria dei 'bravi ragazzi', ce lo insegnano i casi dei figli di Grillo e La Russa". Anche se accettarlo può essere doloroso, i carnefici sono sempre uomini. Non mostri.

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