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Giornata aborto sicuro, la dottoressa Canitano: "Vita della donna vale più dell'embrione"

Cronaca

Giulia Mengolini

©Getty

Elisabetta Canitano, presidente della onlus Vita di Donna, ha dedicato la sua vita alla difesa della salute femminile e alla tutela della legge 194. Nella Giornata dedicata all'aborto libero e sicuro, ci racconta i maggiori ostacoli culturali che ancora resistono, dall'accesso all'ivg farmacologica fino alla pericolosità dell'obiezione di coscienza, come ci ricorda la storia di Valentina Milluzzo

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In molti Paesi del mondo l'accesso all'aborto sicuro e legale è in pericolo. Lo sono anche il diritto alla salute sessuale e riproduttiva senza discriminazioni, e l'accesso ai moderni metodi contraccettivi, compresi quelli d'emergenza. L'allarme arriva da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite secondo cui gli attacchi politici e ideologici ai diritti delle donne sono in crescita. In occasione della Giornata internazionale dell'aborto sicuro, gli esperti ricordano che i diritti alla salute sessuale e riproduttiva sono interdipendenti con altri diritti fondamentali. "Eppure", denunciano le Nazioni Unite, “sono tra i più politicizzati dagli oppositori dei diritti umani". Per questo è necessario formare gli operatori sanitari per fornire servizi di assistenza all'aborto sicuro e post-aborto e regolamentare l'obiezione di coscienza. E l'Italia, dove la legge 194 è in vigore da 45 anni, non fa eccezione. E proprio in occasione della Giornata per l'aborto libero e sicuro un appello di diverse associazioni chiede che il nostro Paese recepisca le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in materia di aborto. Il documento, presentato il 28 settembre alla Camera, è frutto della cooperazione di una compagine inedita, che vede associazioni tradizionalmente impegnate sul tema dei diritti sessuali e riproduttivi unite ad altre impegnate sui diritti LGBTQ+, sulla laicità, sui diritti umani, sulla promozione di policy femministe.

La dottoressa Elisabetta Canitano, 40 anni a servizio delle donne

Elisabetta Canitano, ginecologa romana oggi in pensione e presidente e fondatrice della onlus Vita di Donna, ha dedicato la sua vita alla difesa della salute delle donne, e alla tutela della legge 194. La sede dell’associazione no profit, che offre sostegno medico gratuito a chi ne ha bisogno, si trova dentro la storica Casa internazionale delle donne, dove Canitano ha un ambulatorio in cui visita gratuitamente. “Si riceve dalle 9 alle 19 tutti i giorni compresi i festivi”, si legge sul sito. Il suo telefono è costantemente acceso e riceve decine di telefonate al giorno: c’è chi le chiede come deve comportarsi perché vuole interrompere una gravidanza, o chi la chiama raccontandole che non è riuscita ad acquistare la pillola del giorno dopo. Qualche anno fa ha fatto arrivare i carabinieri in una farmacia di Verona che si rifiutava di vendere la pillola a una coppia. Quando era necessaria ancora la ricetta, invece, si faceva passare al telefono i medici del Pronto Soccorso che non volevano farla. Ginecologa dell'Asl Roma 3, al lavoro nei consultori per 40 anni, Canitano è una pasionaria che si batte da sempre perché la salute femminile in Italia sia un diritto per tutte. Migliaia le donne che ha aiutato.

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La dottoressa Elisabetta Canitano.

Giudizio e vergogna: lo stigma resiste

Parlare di interruzione volontaria di gravidanza per molte donne è ancora motivo di vergogna e di senso di colpa. Una radice antica, che ha a che fare anche con l'abitudine di sentirci giudicate per le scelte che facciamo sui nostri corpi. "Lo stigma dell’aborto va di pari passo con quello dell’attività sessuale femminile, che in questo Paese non finisce mai", dice Canitano. "Difficilmente si ritiene plausibile che le donne abbiano rapporti sessuali esclusivamente per il proprio piacere. Da questo ne deriva che se abortisci, come se sei vittima di uno stupro, è colpa tua perché non ti sei saputa comportare". Le ragazzine, racconta, vengono ad abortire di nascosto “per non deludere mamma e papà”. E la spinta delle femmine a “comportarsi bene” a “pensarci prima” ad “evitare le occasioni” fa strage della libertà delle donne. Gli uomini sono molto meno stigmatizzati per le infinite attività a rischio che fanno, anzi: spesso ricevono patenti di coraggio e bravura". E spesso, spiega Canitano, nelle strutture ospedaliere il personale tratta una donna che è lì per interrompere la gravidanza con sufficienza e giudizio. "Noi siamo qua perché hai fatto i comodi tuoi", sembrano voler dire.

Aborto farmacologico, una scalata piena di ostacoli

In Italia l'accesso all'aborto farmacologico è ancora fortemente ristretto rispetto ad altri Paesi europei: circa il 31%, mentre in Francia e Inghilterra le IVG farmacologiche sono oltre il 70% del totale e nei Paesi del Nord Europa superano il 90. Al centro, una pillola quasi irraggiungibile, la Ru486 (approvata dall'Aifa nel nostro Paese nel 2009), e una scalata piena di ostacoli per ottenerla, come racconta in un dettagliato report la campagna The Impossible pill lanciata nei giorni scorsi dalla rete internazionale Medici nel mondo (il metodo farmacologico si basa sull’assunzione,  a 48 ore di distanza l’una dall’altra, di due pillole: il mifepristone ovvero la Ru486, e il misoprostolo). Un viaggio, da Palermo al Monte Bianco, Siamo arrivate sulla cima del Monte Bianco, per dimostrare e denunciare "quanto l’Italia sia colpevolmente distante dalle direttive dell’Oms".

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Le cause (culturali) del ritardo italiano

Secondo Canitano, dietro questo ritardo ci sono due cause principali. "La prima è stata il bombardamento mediatico da parte degli anti-choice sul fatto che poteva essere pericoloso". In realtà, spiega, "l’aborto farmacologico secondo l’Oms è così sicuro che può essere un’opzione possibile anche autogestito da parte delle donne, con il sostegno anche a distanza di un servizio sanitario efficiente". La seconda causa riguarda invece "la difficoltà dei medici, spesso più in generale del personale sanitario, a porsi in un’ottica di servizio", dice Canitano. "Se le donne possono abortire farmacologicamente, anche a casa, noi dobbiamo solo aiutarle, sostenerle, rispondere ai dubbi e permettere loro di autogestirsi. Può farlo anche un’infermiera, o un'operatrice non sanitaria formata, come già avviene nel mondo". Ma per molti medici è difficile rinunciare all’intervento chirurgico "che prevede una modalità attiva, una prescrizione, una valutazione". Nel nostro Paese, spiega la ginecologa, stenta infatti a farsi strada l'ottica di sostenere le persone nella gestione sanitaria dei propri problemi essendo “di supporto”. In America la FDA ha dichiarato recentemente "che le donne possono acquistare liberamente la pillola solo progestinica. Noi siamo lontani anni luce anche solo dal pensiero che le donne possano autogestire la contraccezione ormonale. Figuriamoci un aborto".  

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Gli ostacoli all'aborto terapeutico

Esiste poi l'altro tipo di aborto, particolarmente doloroso per le donne, perché non contempla una libera scelta, ma "riguarda figli desiderati, voluti". Mentre quello volontario, secondo la dottoressa Canitano, in Italia viene in qualche modo “protetto dalla coscienza delle donne” e i presidenti delle Regioni sono responsabili legalmente della sua attuazione, “quello più in difficoltà è quello terapeutico”, a cui si ricorre per malformazione fetale o perché è a rischio la salute della donna”. Il problema principale, dice la dottoressa, è nella mancanza delle istituzioni: “I nostri servizi di riferimento per le malattie fetali sono per lo più ospedali cattolici. E questo rappresenta un forte ostacolo”. Si tratta di medici che vogliono convincere a tutti i costi a salvare dei bambini che non hanno speranze mettendo in atto "un vero e proprio accanimento". Canitano cita solo alcuni casi dei tantissimi incontrati nei suoi 40 anni di lavoro fatto di storie di donne. Un esempio: “Chirurghi del Bambin Gesù a Roma che spiegano a due genitori le 18 operazioni grazie alle quali il loro bambino, forse, potrà vivere. Senza considerare però come potrà vivere”. O il caso di una donna che una sera a mezzanotte le scrive: “Sono alla 16esima settimana di gravidanza e ho il sacco amniotico rotto. Qui i dottori mi parlano del bambino, ma non di me. Ho paura, ho un altro figlio”, e la dimettono dicendole: “Signora, diamo una chance a questo bambino”. O ancora il caso di una donna incinta in Puglia che si sentiva male ma è stata ricoverata solo al terzo accesso in Pronto Soccorso. “Le hanno fatto l’aborto terapeutico dopo dieci lunghi giorni. Lei è morta”, spiega  Canitano, che potrebbe andare avanti per ore, dice. “Il concetto è che l’aborto volontario è una scelta, nonostante gli ostacoli che esistono ancora. Mentre quello  terapeutico prevede di considerare che la donna viene prima del feto, è più importante. Questo non spesso succede”. È fondamentale che le donne vengano accompagnate all’idea che loro “vengono prima, che la loro vita è più importante di quella dell’embrione. L’embrione non è persona come ci dice la Chiesa: la persona è la donna”.

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La storia (di obiezione) di Valentina Milluzzo

Un caso drammatico che può aiutare a ricordarlo è quello della morte a Catania, nel 2016, di Valentina Milluzzo, incinta di due gemelli. Aveva in corso una grave infezione, "l’aborto l’avrebbe salvata", dice Canitano. Ma il medico obiettore si rifiutò affermando che sentiva ancora il battito del cuore dei feti: morì a 34 anni di setticemia (nell'ottobre 2022 quattro medici sono stati condannati a sei mesi ciascuno per omicidio colposo). Sulla storia di Valentina, la dottoressa Canitano ha scritto lo spettacolo teatrale "Io obietto". Una storia recente che ci fa chiedere: quando potremo dire, in Italia, di avere tutte davvero accesso all'aborto libero e sicuro? "Purtroppo le cose non stanno andando in questo senso. Anche le regioni di centro sinistra alla fine fanno 'maquillage', ma non sostengono il diritto delle donne alla gestione del corpo né il loro diritto alla supremazia sull’embrione", dice Canitano. "Basti ricordare che il Pd, che dovrebbe essere in una posizione di punta nella difesa delle donne, ha come coordinatrice Sanità Beatrice Lorenzin. Una donna che voleva parlare al congresso internazionale dell’associazione 'unodinoi', dove 'uno di noi' è l’embrione, che secondo loro deve avere parità di diritti con la donna", sottolinea. Tornando al caso di Valentina, tra le cose che furono omesse dai medici, riporta la sentenza e ricorda la dottoressa, "ci fu l'aver mancato di asportare i feti durante l'infezione. Il padre di Valentina ci ricorda che il ginecologo uscì in sala d’aspetto dicendo sono un obiettore e c’è il battito, non posso fare niente. Due feti destinati a morte che comunque non potevano essere asportati per tentare di salvare la madre", ricorda Canitano. E allora nella giornata per l'aborto libero e sicuro, ma anche gli altri giorni, ricordiamoci che "le donne sono più importanti degli embrioni e dei feti. E non dimentichiamolo più".

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