
Enzo Tortora, 40 anni fa l'arresto: storia dell’errore giudiziario che sconvolse l’Italia
Il conduttore venne arrestato il 17 giugno del 1983 e condannato a dieci anni di carcere per traffico di stupefacenti e associazione a delinquere. Nel 1986, in appello, la sentenza venne ribaltata e l’anno successivo l’assoluzione venne confermata anche in Cassazione. La vicenda, che portò in carcere un innocente, è stata descritta come il più eclatante “orrore” della giustizia italiana

Enzo Tortora era tra i più popolari presentatori televisivi quando la sua vita, e quella della sua famiglia, vennero sconvolte da un caso giudiziario che ha fatto la storia della malagiustizia in Italia. Il 17 giugno del 1983, il conduttore di “Portobello” venne arrestato, fotografato in manette tra due carabinieri e dato in pasto all'opinione pubblica sui giornali e in tv. Fu l’inizio di un incubo durato circa tre anni che portò in carcere un innocente e mostrò le falle del sistema giudiziario italiano
La serie di Marco Bellocchio su Enzo Tortora
Tutto ebbe inizio alle quattro e mezzo del mattino quando due agenti entrarono nella stanza dell’Hotel Plaza, dove alloggiava Tortora a Roma, con un’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura di Napoli. Il conduttore venne portato nella caserma di via in Selci, sede del Comando Legione Lazio. Le accuse: traffico di stupefacenti e associazione di tipo mafioso. Secondo gli inquirenti, il conduttore sarebbe stato affiliato alla NCO, la Nuova Camorra Organizzata, cartello di cui era a capo il boss Raffaele Cutolo
Una via di Potenza per Enzo Tortora
Notizie sul possibile arresto del conduttore erano iniziate a circolare già il giorno prima e quel 17 giugno, all’esterno dell’Hotel Plaza, si erano radunati numerosi curiosi e giornalisti che fotografarono e ripresero Tortora in manette mentre veniva scortato nell’auto dei carabinieri. Quelle immagini continuarono a circolare per parecchie settimane sui giornali e nei servizi televisivi

Sempre il 17 giugno, vennero arrestate altre 856 persone, tutte accusate di far parte della camorra. Già poche settimane dopo si iniziò a capire che l’operazione dei procuratori napoletani aveva delle inesattezze: 144 persone arrestate risultarono omonimi di presunti appartenenti alla NCO. Intanto, vista la notorietà del presentatore, gli italiani si divisero in colpevolisti e innocentisti

Nella retata contro la NCO, il nome di Tortora era stato fatto da due cosiddetti “pentiti”, Giovanni Pandico, detto "’o pazzo", e Pasquale Barra, detto "’o animale". Il primo lo mise al 66° posto di un elenco di presunti affiliati alla camorra. Pandico era in carcere per l’omicidio di 2 persone in un ufficio del comune che per lui erano troppo lente nel consegnargli un certificato. Aveva condanne per tentato parricidio e tentato avvelenamento della madre e aveva trascorso diverso tempo nel manicomio giudiziario di Aversa, dove era detenuto anche Raffaele Cutolo

La cartella clinica di Pandico diceva che era “paranoico, schizoide, dotato di personalità aggressiva, condizionata da mania di protagonismo”. Barra disse di aver conosciuto Tortora in alcuni night milanesi e di averlo presentato a Cutolo, che gli aveva offerto 80 milioni di lire per ogni partita di droga spacciata tra i personaggi dello spettacolo. Tortora poi aveva rubato 46 milioni all’organizzazione, però non era stato ucciso perché secondo Cutolo era troppo famoso, sarebbe stato controproducente

Il racconto di Barra era subito sembrato poco credibile a chi conosceva il presentatore, noto per non frequentare per niente il jet set e la Milano notturna. A coordinare l’inchiesta su Tortora c’erano due pm definiti “i Maradona del diritto”, ovvero considerati i migliori in circolazione: Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Per gran parte della stampa il verdetto era uno solo: colpevole

A difendere l’innocenza del presentatore si schierarono solo pochi giornalisti tra cui Piero Angela, molto amico di Tortora, ed Enzo Biagi che in un articolo dal titolo “E se Tortora fosse innocente?” si rivolse direttamente al presidente della Repubblica Sandro Pertini: "Non le sottopongo il caso di un mio collega ma quello di un cittadino - scrisse - Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura”

Giorgio Bocca definì la vicenda Tortora “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso nel nostro Paese”. Intanto i magistrati sostennero di essere in possesso di un’agenda, trovata durante una perquisizione a casa di un altro camorrista, Giuseppe Puca, detto "’o Giappone". Secondo loro alla lettera T di quell’agenda c’era il nome di Tortora, ma nessuno provò a chiamare il numero telefonico per verificare. Solo successivamente si scoprì che era legato a Vincenzo, detto Enzo, Tortona, commerciante di bibite di Salerno

Anche se le accuse sembravano inconsistenti, durante le indagini altri presunti collaboratori di giustizia cominciarono a fare il nome di Tortora, in tutto alla fine furono 19. Chi iniziava a collaborare lasciava il carcere e veniva trasferito in una caserma dei carabinieri dove, raccontarono poi, le condizioni di detenzione erano decisamente migliori, tanto che alcuni di loro chiamavano quella caserma “hotel”

Intanto emerse che prima che Tortora venisse arrestato, Pandico gli aveva scritto numerose lettere in cui parlava di una serie di centrini. Quando i magistrati gli chiesero una spiegazione, lui disse che in realtà “centrini” era una parola in codice che significava droga. Domenico Barbaro, ex compagno di cella di Pandico, spiegò invece che quei centrini erano davvero centrini: “Li ho fatti io all’uncinetto, poi visto che io non so scrivere li aveva spediti Pandico a Portobello perché fossero mostrati in trasmissione”

Siccome questo non accadde, Pandico cominciò a scrivere a Tortora lettere sempre più risentite. Disse Barbaro: “Pandico era totalmente ossessionato da Tortora, non parlava d’altro, in cella non ne potevamo più”. In pratica, secondo Barbaro, Pandico aveva fatto il nome di Tortora ai magistrati per punirlo: la sua colpa era quella di non aver mostrato i centrini durante una puntata della trasmissione

Il 17 gennaio 1984 a Enzo Tortora vennero concessi gli arresti domiciliari, dopo sette mesi di carcere, e nella primavera del 1984 il Partito Radicale di Marco Pannella propose a Tortora di candidarsi alle elezioni del Parlamento europeo. Il 17 giugno del 1984 Tortora venne eletto al Parlamento europeo con 485mila voti

Tra i “collaboratori di giustizia” che accusavano il conduttore c’era anche Gianni Melluso, un piccolo criminale che aveva dichiarato di aver consegnato più volte la droga a Tortora. Nel 1985 avvenne un confronto tra Tortora e Melluso nel quale quest’ultimo non riuscì a circostanziare nessuno dei presunti incontri con il presentatore Tv. Nonostante le lacune delle indagini, il 17 settembre 1985 Tortora venne condannato a dieci anni di carcere e al pagamento di una multa di 50 milioni di lire

Dopo la condanna Tortora si dimise da parlamentare europeo rinunciando così all’immunità, e tornò agli arresti domiciliari. Il 20 maggio del 1986 iniziò il processo di appello. Pandico venne messo a confronto con Domenico Barbaro, l’uomo dei centrini, che ribadì la sua versione. Pasquale Barra non si presentò in aula e molti dei collaboratori di giustizia che avevano accusato Tortora scrissero lettere dicendo di essersi inventati tutto e chiedendo perdono

Il 15 settembre del 1986 Enzo Tortora venne assolto dall’accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso per non aver commesso il fatto e da quella di spaccio di droga perché il fatto non sussiste. Il 13 giugno del 1987 la Corte di Cassazione confermò la sentenza di secondo grado

Intanto, il 20 febbraio del 1987, Tortora era tornato con il suo "Portobello". Il suo discorso di apertura resta nella storia. “Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai”, aggiungendo poi: “Io sono qui, e lo so, anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi”

Nemmeno un anno dopo la sentenza della Corte di Cassazione, Enzo Tortora morì a Milano il 18 maggio del 1988. Poco tempo prima gli era stato diagnosticato un tumore. In seguito, in una trasmissione televisiva, l’avvocato difensore Raffaele Della Valle commentò la vicenda affermando: "Non era un errore giudiziario, era un orrore giudiziario”. (Nella foto l'altro avvocato difensore Alberto Dall'Ora)

Il “caso Tortora” è ricordato come il più eclatante esempio di malagiustizia in Italia ed è stato propulsore di una serie di riforme della giustizia. Con il referendum abrogativo del 1987 è stata introdotta la responsabilità civile dei magistrati, nel 1988 venne approvata la legge Vassalli che fa ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato, ma sullo Stato, che successivamente può rivalersi, in ragione di un terzo di annualità dello stipendio, sullo stesso
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