Aborto, cosa prevede la legge 194 in Italia

Cronaca
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Il 22 maggio del 1978 venne pubblicata sulla Gazzetta ufficiale una legge che depenalizzava l’aborto, fino ad allora considerato un reato, disciplinandolo in alcune circostanze. Il percorso che portò a questo provvedimento fu lungo, ma segnò un’altra importante conquista per i diritti delle donne

Quarantaquattro anni fa l’Italia si unì alla lista dei Paesi che consentivano l’aborto in alcune circostanze. L’interruzione di gravidanza, che fino ad allora era considerata un reato e vietata in ogni circostanza, venne disciplinata con la legge 194, approvata dal Senato in via definita il 18 maggio del 1978 con 160 sì e 148 no, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 22 maggio successivo. Il provvedimento fu frutto di un lungo percorso, e anche dopo la sua approvazione non ebbe vita facile. Tuttora c’è chi ne contesta limiti e contraddizioni. Allora segnò una svolta importante soprattutto per i diritti e la salute delle donne, mettendo fine agli aborti clandestini. Intanto il dibattito sull'aborto rimane acceso in tutto il mondo, soprattutto negli Usa, dove la Corte suprema ha abolito la storica sentenza “Roe v. Wade” con cui nel 1973 aveva legalizzato l'interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. Cosa vuol dire? Che da ora i singoli Stati sono liberi di applicare le loro leggi in materia.

Il contesto storico

Come fa notare lo storico Emmanuel Betta, in Italia si era cominciato a parlare di aborto a seguito di alcune scoperte mediche e della Seconda guerra mondiale, anche a causa degli stupri usati come arma contro il nemico. Ciò nonostante, negli anni Settanta l’aborto nel nostro Paese era ancora regolamentato da una legge prodotta nel 1930 dal regime fascista ed esplicitata nel codice Rocco, che stabiliva che l’interruzione era vietata in tutte le circostanze con pene che andavano dai 5 ai 10 anni. Si trattava di un reato contro la morale, la stirpe, e “Alfredo Rocco l’aveva concepito come un omaggio alla politica demografica razziale di Mussolini”.

I primi passi

Secondo molti osservatori, la legge sul divorzio spianò la strada a quella sull’aborto. Alcuni mesi dopo la promulgazione della 898, il Movimento di Liberalizzazione della donna annunciò infatti la presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare per depenalizzare l’aborto. Due anni più tardi fu poi Loris Fortuna, deputato socialista e primo firmatario della legge che disciplinava i casi di scioglimento del matrimonio, a farsi promotore di una nuova proposta sull’interruzione di gravidanza nel 1973. Nello stesso anno, su iniziativa di Adele Faccio, nacque anche il Cisa, Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto, con lo scopo di fornire informazione e assistenza su questi temi. Ne faceva parte anche Emma Bonino, che qualche anno più tardi scese in politica coi Radicali.

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Gli eventi del 1975

Nonostante le istanze di parte dell’opinione pubblica e della politica, a metà degli anni Settanta l’interruzione di gravidanza continuava a rimanere un reato e la giustizia perseguiva sia chi decideva di ricorrervi sia chi aiutava la donna in questione a praticarlo. Il 26 gennaio del 1975, Faccio venne arrestata durante il Congresso Radicale sull’aborto. “Ho raccontato ai giudici tutto quello che facevano, come e perché, costringendoli a rendersi conto della realtà”, raccontò in seguito. Naturalmente, loro non si sono resi conto di niente, manco a dirlo, ma la televisione ha parlato finalmente di aborto”. Il dibattito sul tema si riaccese il mese seguente quando la Corte Costituzionale, con sentenza 18 febbraio 1975, n. 27, dichiarò illegittimo l’articolo 546 del codice penale, che vietava l’aborto nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta in caso di danno o pericolo grave per la donna. I giudici stabilirono, tra l’altro, che “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”. A livello giuridico, si trattava di un altro passaggio importante dopo la sentenza del 1971 che aveva abrogato il divieto di circolazione dei contraccettivi, ribaltando un precedente verdetto del 1965. La strada, però, era ancora lunga e per non far rimanere inascoltate le proprie istanze, il 6 dicembre di quell’anno 20mila donne scesero in piazza a Roma, organizzando la prima grande manifestazione nazionale del Movimento Liberazione Donna.

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Il dramma di Seveso

Tra l’aprile e il giugno 1976 si sarebbe dovuto tenere un referendum abrogativo delle norme che vietavano l’aborto. Nel novembre dell’anno precedente la Corte della Cassazione aveva infatti dichiarato legittimo il numero delle firme raccolte a questo proposito. A causa dello scioglimento delle Camere, la consultazione venne rinviata ma quello stesso anno ci fu un primo via libera all’aborto terapeutico. Il motivo fu il disastro di Seveso, ovvero l’esplosione di un reattore chimico nello stabilimento della Icmesa che causò la la dispersione di una nube di diossina TCDD. Dato che la sostanza poteva avere effetti dannosi sul feto e causare malfomazioni, il governo Andreotti autorizzò l’aborto terapeutico. Come ricorda il giurista Luca Benci in un approfondimento su Quotidiano Sanità, quell'intervento fu possibile grazie a ciò che aveva stabilito la Corte Costituzionale l'anno prima e, in quell’occasione, il presidente del Consiglio sottolineò “i gravi pericoli che incombono sulle gestanti”, sottolineando che la decisione doveva "essere posta in capo alle donne che ritengano di dover interrompere la maternità”. 

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L’approvazione

La legge che oggi disciplina l’aborto cominciò a prendere vita nel 1976. Come ricorda la Treccani, le Commissioni permanenti Giustizia e Sanità presentarono un nuovo progetto unitario elaborato dalle Commissioni permanenti Giustizia e Sanità riunite. La prima volta fu approvato dalla Camera ma bocciato al Senato. Il secondo tentativo andò però in porto e nel 1978 si arrivà alla sua approvazione definitiva. La 194 stabiliva che l'interruzione volontaria della gravidanza non era un mezzo per il controllo delle nascite, ma la rendeva legittima entro i primi novanta giorni in caso di serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, alle circostanze in cui era avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del feto. All’articolo 9 introduceva poi l’obiezione di coscienza per il personale sanitario, concepita fino ad allora solo per la leva militare. Come mostrò l’esito del voto, allora la società era ancora spaccata sul tema e solo sei giorni dopo Papa Paolo VI condannò il provvedimento pubblicamente. Tre anni più tardi gli italiani vennero poi chiamati a pronunciarsi sulle istanze di chi voleva abrogarla tout court e chi voleva riscriverla con l’obiettivo di espanderla. Entrambe le proposte vennero bocciate. Come ha osservato lo storico Emmanuel Betta parlando della “legge della discordia”, la 194 fu frutto di un vuoto normativo aperto dalla Corte Costituzionale, delle istanze sociale espresse in primis dai movimenti femministi e anche dalle pressioni referendarie dovute alle iniziative promosse anche dai Radicali. “Fu una legge faticosa, ma fu una legge che trovò una mediazione adeguata tra istanze molto diverse”, ha notato Betta, spiegando che la legge aveva definito l'aborto come servizio sanitario, ma non tutte poterono accedervi in modo uguale a causa delle differenze locali. "Ma questo chiama in causa questioni relative alla storia del nostro Paese e non solo a questa legge, al funzionamento delle istituzioni sanitarie e dello Stato". Il problema persiste tuttora. Secondo dati riportati dall’associazione Luca Coscioni, il tasso di obiezione di coscienza tra il personale medico è ancora molto alto e supera il 90% in alcune regioni.

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