Tatiana e il bisogno di chiudere gli occhi almeno una volta e sparire

Prego, scomodati ché parliamo di invidia. La storia l’avrai certamente intercettata, lettore scomodo: Tatiana Tramacere, 27 anni, di Nardò, scompare a fine novembre. Siccome racconti simili, che iniziano con una donna della quale si perdono le tracce e non è detto che la si riveda viva, li sentiamo sovente, si teme il peggio. Qualcuno anzitempo pensa anche di avere già capito tutto, si sa come vanno queste cose - purtroppo. Si mette in moto la macchina delle ricerche mentre le pance di famiglia, amici e concittadini entrano in subbuglio: l’angoscia, l’ignoto, l’assenza di risposte diventano le compagne delle giornate. Sostituiscono Tatiana, in assenza di Tatiana. Undici giorni dopo, la si ritrova. Non era stata rapita, presa con la forza, sequestrata. Aveva chiesto rifugio e un amico le aveva offerto la sua mansarda. Tatiana era sempre stata a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. È praticamente certo che il suo sia stato un allontanamento volontario, per quanto sia meno chiaro quali ragioni l’abbiano mossa. Si allude a una presunta malattia che la giovane è portata a negare, si parla di una forte fragilità psicologica. Se si va su Google, si vede che gli utenti hanno già interrogato la rete per sapere di cosa soffra - senza esito. A mia sensibilità, non ho avuto la mera sensazione che fosse il solito impiccionismo voyeurista, bensì ci fosse qualcosa in più: questa storia è risultata al pubblico troppo sottile in assenza di morti, rapimenti, violenza, malattie terminali rarissime, mostrificanti, incurabili. Una vicenda troppo bidimensionale e inconsistente per reggersi solo sull’umana debolezza, che peraltro ci è così invisa: ci qualifica strutturalmente - siamo tutti fatti di acqua e fragilità - eppure abbiamo sempre bisogno di combatterla, di negarla, di svilirla. Perché? Perché se siamo vulnerabili, se lo siamo tutti quanti, anche nostra figlia potrebbe voler sparire. Persino noi potremmo farlo. Se non esiste l’uomo nero, la zingara che nasconde i bambini sotto la gonna, un maniaco per ogni racconto che esce dalle pagine di un libro prevedibile ma siamo noi l’uomo nero che temiamo al punto da doverlo proiettare all’esterno, la donna malvagia - ché non è un primato degli uomini - e il maniaco che devia il corso della storia, allontanandolo da come i nostri affetti vorrebbero che la scrivessimo… ecco, a quel punto rischiamo di andare in tilt. Ciò che è accaduto a seguito del ritrovamento di Tramacere, infatti, è stato che il pubblico è rimasto deluso. Come se da che le cronache di suicidio, di guerra e di distruzione che animano i nostri smartphone fossero comparabili ad una scelta in streaming, quando abbiamo scoperto che dovessimo rimetterci in tasca l’apprensione per le sorti della protagonista non ci siamo sentiti sollevati, felici per lei e la famiglia, magari addirittura incuriositi da una svolta inattesa. No. Ci siamo sentiti fregati, illusi, privati dell’intrattenimento che pretendiamo dalle disgrazie altrui - e siamo diventati cattivi. … Ha fatto tutto da sola? Si era semplicemente ritirata? Tutto qui?, come se avessimo scoperto di avere concesso un paio d’ore a un film di serie B. Quando è stato chiaro che nella storia di Tatiana Tramacere non ci fossero violentatori, adescatori, assassini… lo siamo diventati noi. Ci si è indignati, abbiamo voluto le sue scuse, si è invocato che si pagasse le indagini da sola. E abbiamo voluto andarglielo a dire: su Instagram, su Facebook, l’abbiamo raggiunta al suo indirizzo - come se le avessimo citofonato, come se la conoscessimo, come se ne avessimo il diritto o c’entrassimo qualcosa - e siamo andati a insultarla, ad augurarle la morte, a invitarla a procurarsela da sola. A farla pentire di avere attirato indebitamente la attenzione. A riscriverlo noi, il copione nel quale questa ragazza va a finire male. Come accennavo, credo siamo stati mossi dal livore di chi vuole un leone per ogni gladiatore ché senza sangue lo spettacolo non merita parimenti il costo del biglietto, ma non solo. Al netto del fatto che la Procura infine non procederà per procurato allarme , io ti solletico ad un altro livello di questa faccenda, mio lettore scomodo. Non conosco le ragioni del gesto di Tramacere e se vuoi sapere la mia, secondo me non le sapremo mai - anche perché questa storia, purtroppo, rimosso il dramma ha perso appeal e non penso se ne riparlerà poi molto, a meno di un colpo di scena. Purtroppo, dicevo, perché la normalità di questa storia è stupenda ed è il pezzo che a mio modo di vedere ci ha mandati fuori di testa e dentro ai profili della giovane. Tatiana Tramacere non ce la faceva più. Voleva sottrarsi alle relazioni, agli sguardi, alle responsabilità. Al quotidiano, alle pressioni, ai Come stai?, alle aspettative di quando hai trent’anni e insomma non sei più una ragazzina. La immagino semplicemente stanca , molto molto stanca. Cesare Pavese in una lettera a Bianca Garufi lo definì il ritorno al buio materno: quella notte lunga nove mesi ma forse troppo breve per preparaci alla vita e che poi ci capita di sognare, agognare, tornare a cercare. Succede ogni volta che vorremmo solo chiudere gli occhi, rannicchiarci, mettere la testa sotto a qualcosa che la ripari - come quando da bambini allucinavamo che non vedere gli altri significasse che nemmeno gli altri vedessero noi. Prenderci una tregua, sospenderci, rallentare. Fermare il tempo, non far arrivare domani ché non siamo pronti. C’è chi lo fa attentando alla sua vita, in effetti. E poi c’è chi lo fa come ha fatto Tatiana Tramacere: chiedendo aiuto a un amico che le ha dato rifugio. Certo, avevano 27 e 30 anni e non 11. Ma la sopraffazione, la fatica e l’ingenuità non sono mere questioni anagrafiche e la fragilità rimane la materia della quale siamo fatti, fino alla fine. Così, a me pare che il lato oscuro di questa storia in realtà sia stata l’invidia: Tramacere ha fatto qualcosa che prima o poi abbiamo fantasticato di fare tutti, ma poi siamo andati in ufficio, usciti a fare la spesa ché in frigo non c’era nulla, a prendere l’autobus ché c’era qualcuno che ci aspettava e che avevamo già bidonato una volta. Ci è costato tanto, tantissimo, e forse mal sopportiamo che qualcuno invece si sia tolto di mezzo e basta, senza dare spiegazioni, senza premurarsi di avvisare, senza porsi lo scrupolo di cosa significasse per chi avrebbe brancolato nel buio dell’incomprensione, occupandosi esclusivamente del proprio impellente bisogno di non esserci, non partecipare, non fare le cose per benino. Non farle affatto. Gli odiatori armati di pollice opponibile e touchscreen gliel’hanno allora fatta pagare: al grido di Cresci o crepa, ché non è così che si fa l’hanno portata a scomparire anche dai social. Ché si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio. Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio.

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Stefania Andreoli