Cosa sono e come lavorano i centri per gli uomini autori di violenza

Dieci sedie in cerchio, altrettanti uomini seduti. Hanno età molto diverse, dai 18 ai 70 anni, alcuni sono italiani e altri stranieri, qualcuno è padre e qualcuno no, c'è chi è laureato e chi si è fermato alle scuole medie. Si trovano al CUAV Andrea di Milano per lavorare sul contrasto alla violenza di genere: alcuni di loro l’hanno già agita, altri si sono fermati poco prima. Seduti insieme a loro, in mezzo al cerchio, ci sono due professionisti, co-conduttori del gruppo. Siamo in un Centro per Uomini Autori di Violenza. L’obiettivo principale dei CUAV, in linea con la Convenzione di Istanbul, è quello di prevenire e interrompere la violenza di genere, anche al fine di evitare la recidiva tutelando la sicurezza e i diritti della donna e di eventuali figli o figlie minori. I CUAV, chiamati ad attivare programmi integrati rivolti ai soggetti autori di violenza, sono realtà meno numerose e meno note dei centri anti-violenza. Solo dal 2022, con l’intesa Stato-Regioni, sono diventati servizi istituzionali, finanziati dalle Regioni e a livello nazionale dal Dipartimento Pari Opportunità. Esistono diverse strade per accedere a un Centro per Uomini Autori di Violenza, spiegano dalla Fondazione Somaschi ONLUS, ente gestore del CUAV milanese Andrea. Nella maggior parte dei casi questi centri sono frequentati da uomini già denunciati per un reato legato alla violenza di genere, che quindi hanno affrontato un procedimento penale e ricevuto una sentenza di condanna: in questi casi la sentenza viene sospesa dal giudice e i soggetti vengono indirizzati all’avvio di un percorso. Ed è in circostanze come queste – dove si concretizza un beneficio di pena –che possono emergere criticità legate a un accesso strumentale: può accadere che il maltrattante non sia abbastanza motivato per intraprendere un percorso di contrasto alla violenza. Un’altra strada per l’accesso a un CUAV è quella dei Servizi Sociali: per esempio, spiega la Fondazione, nei casi in cui vengano intercettati comportamenti violenti nei confronti della partner che non sono ancora stati denunciati, ma attenzionati dai servizi. Molto spesso gli uomini segnalati sono padri, e si interviene per un’azione di tutela nei confronti dei figli. La terza possibilità, anche se rappresenta una percentuale inferiore, è quella dell’accesso spontaneo. L’uomo sceglie di presentarsi a un CUAV per chiedere di essere inserito all’interno di un percorso: spesso accade dopo un primo agito di violenza fisica. "Ci auguriamo che questa possibilità apra a un numero maggiore di uomini", auspica la Fondazione: ma perché si avvicinino è necessario sapere che i CUAV non sono luoghi “dove vanno gli uomini colpevoli, ma luoghi di responsabilizzazione”, dove hanno un’opportunità di cambiamento. Il programma prevede un minimo 60 ore in un tempo non inferiore a 12 mesi. Un tempo in cui non si conclude un percorso di consapevolezza, ma si inizia a lavorare. Il CUAV Andrea, che è parte parte di Progetto U.O.M.O, conta circa 30 partecipanti l’anno. Lo strumento del gruppo: uno specchio in cui riflettersi Il trattamento all’interno dei CUAV può avvenire tramite percorsi individuali o di gruppo. Nel centro di Milano si lavora in incontri di gruppo co-condotti da uno psicoterapeuta e una psichiatra. Il gruppo è lo strumento principale dell’intervento, perché facilita la possibilità di parlare di sé tra “pari”. Prima di accedere a un gruppo è necessario intraprendere un percorso di 3-4 incontri finalizzati alla verifica delle motivazioni e valutazione del rischio. E si esaminano anche i motivi che spingono l’uomo a iniziare questo tipo di lavoro: in casi di negazione assoluta delle proprie responsabilità e di chiusura totale il percorso non può essere avviato, spiegano dal CUAV. Ma cosa accade all’interno di questi gruppi? Quali temi vengono affrontati e con quali modalità? La forza del confronto "tra simili" e la negazione della violenza “Il trattamento in gruppo ‘aperto’, tra uomini che si trovano in diverse fasi del percorso permette che ci sia una restituzione da parte dei ‘simili’, persone con la medesima storia. E questo è fondamentale”, spiega Maria Rosaria Rapolla, psichiatra e psicoterapeuta che co-conduce questi gruppi all’interno del CUAV Andrea. “Il gruppo fa da specchio: capita che un uomo in una fase avanzata del percorso intervenga per dire a un partecipante: ‘Ti stai sbagliando, anche io pensavo questo ma poi ho capito che…’ e questo ha una forza decisamente maggiore del solo intervento del terapeuta’, sottolinea la psichiatra. “L’intento nel corso delle conversazioni è quello di sradicare convinzioni errate, pregiudizi e stereotipi di genere con le quali questi uomini sono cresciuti”. I gruppi prevedono un minimo di tre partecipanti fino a un massimo di 12, e durano circa 1 ora e 45 minuti. La dottoressa racconta che quando arriva un nuovo membro del gruppo e gli altri si presentano, è interessante notare come non venga mai nominata la parola “violenza”: “I ‘veterani’ del gruppo dopo diversi incontri riescono a dire di aver agito violenza, mentre quelli ‘nuovi’ non ce la fanno”. Oltre alla vergogna, c’è il bisogno di prendere le distanze, come a dire: “Non ero io in quel momento, ho perso la testa”. Oppure la rabbia nei confronti della donna: “È lei che mi ha portato a fare questo”. Anche le presentazioni iniziali rappresentano quindi un terreno fertile su cui iniziare a lavorare. Le difficoltà nel riconoscere forme di violenza diverse da quella fisica All’interno dei gruppi spesso si parte da fatti inventati, che la psichiatra Rapolla e il collega psicoterapeuta Tommaso Vitale propongono ai partecipanti invitandoli a commenti e riflessioni. Un esempio: un uomo dice alla partner di cambiare il proprio outfit perché non vuole che esca vestita in quel modo. In questa richiesta c’è violenza? E se sì, è violenza di genere? “Queste conversazioni aprono grandi varchi: emerge tutta la loro fatica a comprendere il significato di violenza di genere e a riconoscerla. Spesso rifiutano proprio il concetto”, spiegano gli esperti. In momenti iniziali del percorso qualcuno dei partecipanti afferma “che sono le donne che chiedono agli uomini di essere controllate, difese”. Se la violenza fisica viene riconosciuta, le altre forme di violenza sono invece molto spesso sottovalutate e misconosciute. Quelle più difficili da comprendere sono quella economica e quella sessuale - soprattutto se all’interno della coppia - spiega la psichiatra. Difficoltà che emerge dalle loro affermazioni: “Certo che battevo i pugni sul tavolo se lei spendeva troppo, ma lo facevo per far quadrare il bilancio familiare”. Oppure: “In una coppia è normale che la donna abbia meno desiderio, ma se lui insiste si concede”. Stereotipi e convinzioni radicate da scardinare. L'efficacia del ribaltamento dei ruoli Una modalità efficace per stimolare una riflessione è quella del ribaltamento dei ruoli, spiegano i terapeuti. “Quando vediamo che faticano, chiediamo loro: prova a pensare al contrario: non sei tu che imponi a tua moglie di non mettere quell’abito, ma è lei che ti impedisce di indossare quei jeans che ti piacciono molto perché ti stanno troppo bene”. All’inizio molti di loro restano straniti, chiedono “ma che cosa c’entra?”, poi la modalità di mettersi nei panni dell’altra si rivela efficace. Capita anche che all’interno dei gruppi si commentino casi di cronaca legati a violenza di genere o femminicidi : “In una occasione abbiamo letto un estratto delle chat WhatsApp di Giulia Cecchettin con le amiche”, racconta la psichiatra. “Nelle prime fasi notiamo che leggono poco di questi casi di cronaca, li evitano. Colpisce invece che invece dopo diversi incontri siano loro stessi a portarli nelle conversazioni”. Il ruolo cruciale della co-conduzione maschile e femminile I partecipanti partono da diversi livelli di consapevolezza rispetto alle azioni commesse, e queste differenze hanno anche a che fare con la modalità con la quale hanno avuto accesso al CUAV. Coloro che arrivano al centro tramite accesso spontaneo si trovano a uno step avanzato rispetto ad altri che in sede penale vengono inviati dal magistrato dopo una richiesta dei propri legali. “Questi uomini hanno un atteggiamento di resistenza, spesso dicono ‘qui mi ci hanno portato’”. Nei casi di accesso spontaneo accade invece che alcuni di loro si presentino “dopo aver agito violenza fisica per la prima volta. Ammettono di aver superato il limite e ci chiedono aiuto”, spiega la psichiatra. Altri si sono presentati dicendo: ‘Ho fatto ciò che faceva mio padre’, a dimostrazione che la violenza domestica “è spesso transgenerazionale”. I terapeuti ricordano spesso loro che la violenza è una scelta, c’è sempre un’altra possibilità. “Noi lavoriamo ogni giorno perché si scelga l’altra”. La co-conduzione maschile-femminile e la differenza di approccio Tommaso Vitale, terapeuta che co-conduce i gruppi insieme alla dottoressa Rapolla, sottolinea l’importanza della doppia figura maschile-femminile, “una risorsa per poter ricreare all’interno del gruppo la dinamica con entrambi i sessi. Il loro modo di relazionarsi diversamente rispetto a noi due diventa materiale di lavoro”, spiega. L’indicazione della co-conduzione maschile-femminile è indicata dalle linee guida degli studi internazionali sul tema. Ed è interessante notare come la modalità di relazione nei confronti dell’esperta e dell’esperto “siano profondamente diverse”, spiega Vitale. “Spesso attaccano la dottoressa all’inizio del percorso, mentre in me cercano una spalla, un’alleanza in quanto maschio”. Quando uno dei partecipanti racconta al gruppo un episodio, spesso i due colleghi mettono in atto una simulazione, strumento importante per loro anche per imparare “a vedere un rapporto di ascolto e di rispetto. E devono scoprire che anche il pensiero femminile ha un valore”. La doppia prevenzione Nonostante molti uomini che fanno percorsi nei CUAV hanno già agito violenza, il centro lavora anche sulla prevenzione. Per esempio su chi è stato intercettato dai Servizi sociali per una modalità di relazione violenza, verbale o psicologica, ma non ha mai agito quella fisica. In questi casi, chiarisce la psichiatra, parliamo di “doppia prevenzione” perché molto spesso questi uomini sono padri, e lavorando con loro cerchiamo di impedire che trasmettano ai propri figli una modalità relazionale e uno stile di mascolinità tossici. Molti di loro sono anche separati o divorziati, e capita che stiano iniziando nuove relazioni: la prevenzione è quindi importante anche per la prossima partner. I percorsi esterni al CUAV I CUAV organizzano anche attività di prevenzione, sensibilizzazione e formazione esterne ai centri, rivolte alla comunità attraverso incontri sul territorio o nelle scuole. Lo psicoterapeuta Vitale co-conduce anche questo tipi di gruppi: alcuni rivolti ai minori, altri ad adulti. “Lavoriamo sulle emozioni, sugli stereotipi di genere, le dinamiche relazionali e i modelli legati a ruoli genitoriali che abbiamo vissuto. Sempre nella direzione di promuovere una cultura del rispetto”. L’esperto racconta che il lavoro in gruppo sta mostrando segnali di cambiamento: “Qualche giorno fa un ragazzo 30enne ci ha raccontato che dopo uno dei nostri incontri è riuscito a intervenire di fronte a battute omofobe da parte di un suo superiore a cui ha assistito in ufficio”. L’esperto spiega che la metodologia alla base dei gruppi, rivolti a minori o adulti, è simile, così come gli obiettivi: “Lo scopo è che ogni uomo diventi un agente attivo: acquisire consapevolezza e aiutare un collega, un amico o un fratello a notare certe dinamiche, riconoscerle e smettere di agirle. I partecipanti si sentono protagonisti di questo cambiamento, sono coinvolti. Questo ci dà molta fiducia”.

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Giulia Mengolini