Brigitte Bardot e l’Italia: amori, cinema e libertà di un mito irripetibile

Prima di diventare Brigitte Bardot, BB fu una ragazza che la Francia non sapeva ancora guardare. Parigi, nei primi anni Cinquanta, la considerava graziosa, nulla più. Un volto promettente, un corpo ancora non decifrato. Fu l’Italia, invece, a intuire che quella giovane donna conteneva qualcosa di più grande: non un talento da addestrare, ma un’immagine da liberare. Roma la accolse senza sospetti. Cinecittà non la giudicò, la mise alla prova. Le fece fare film magari imperfetti, ma decisivi. Bardot lo dirà lei stessa, anni dopo: in Italia non faceva solo cinema, faceva immagine. Qui imparò che la bellezza non è una qualità naturale, ma una costruzione culturale, un patto tra corpo, luce e sguardo. Via Veneto, l’Hostaria dell’Orso, i set romani: l’Italia le offrì una scena e un pubblico. I paparazzi la inseguivano, i fotografi la reinventavano, i produttori la osservavano con un misto di desiderio e intuizione. Mentre Parigi esitava, Roma la consacrava. Qui nasce il mito BB, non come diva algida, ma come divinità pagana, corporea, indisciplinata, impossibile da addomesticare. Mio figlio Nerone: l’invenzione della Bardot bionda Il momento di svolta ha un titolo preciso: 1956, Mio figlio Nerone di Steno. Un film spesso liquidato come minore, ma che nella storia del costume è tutt’altro che secondario. Brigitte Bardot interpreta Poppea accanto ad Alberto Sordi, Vittorio De Sica e Gloria Swanson. È un ruolo decorativo, certo, ma contiene una decisione destinata a cambiare tutto. Sul set, per esigenze di copione, un parrucchiere ha un’idea semplice e irreversibile: decolorarla. Nasce la Bardot bionda. Non come scelta di stile, ma come necessità narrativa. Poppea doveva essere così. Da quel momento, nulla sarà più lo stesso. L’Italia non si limita a guardarla: la riscrive. Bardot stessa, anni dopo, dirà che quella fu l’unica vera eredità del film. E non è poco. È l’atto di nascita di un’icona globale. Il cinema italiano capisce prima di altri che il suo corpo non va solo desiderato, ma mitizzato. L’eccesso cromatico, i costumi, la fisicità: BB diventa un segnale, una promessa, una minaccia per l’ordine del desiderio. Vita privata: quando l’Italia mostra l'icona ferita Con Vita privata di Louis Malle, girato tra Roma e Spoleto, l’Italia compie un passo ulteriore: spoglia Bardot del mito e ne mostra il trauma. Qui BB è Jill, attrice assediata dallo sguardo pubblico, odiata e desiderata con la stessa violenza, incapace di distinguere la vita dalla rappresentazione. Accanto a lei c’è Marcello Mastroianni, volto malinconico e intellettuale del nostro cinema. Spoleto, con il Festival dei Due Mondi, diventa il luogo simbolico di questa frattura: l’arte alta contro il circo mediatico, il silenzio contro l’isteria. Jill/Bardot non fugge dall’amore, ma dall’esposizione. Dal rumore. Dalla folla. Vita privata è fondamentale perché anticipa ciò che Bardot diventerà più tardi: una donna che rifiuta lo sguardo. L’Italia, ancora una volta, non la usa soltanto: la capisce. E racconta la sua fragilità prima che lei stessa scelga il silenzio e l’isolamento. Capri, Il disprezzo e la sottrazione definitiva Il cerchio si chiude a Capri, nel 1963, con Il disprezzo di Jean-Luc Godard, tratto da Moravia. Un film francese, certo, ma girato in Italia, impregnato di paesaggio italiano, attraversato da un pensiero profondamente nostro: il conflitto tra arte, denaro e desiderio. Sulla terrazza di Villa Malaparte, Bardot diventa Camille: non più corpo da possedere, ma enigma da perdere. È l’ultimo grande regalo dell’Italia al suo mito. Perché qui BB non viene più creata: viene sottratta. Isolata. Guardata mentre si allontana. Capri non la esalta, la separa. Il film è anche una riflessione sul cinema stesso, sul tradimento dello sguardo, sull’impossibilità di conciliare amore e compromesso. Camille è già oltre. Bardot è già altrove. E il cinema, per la prima volta, sembra chiedere scusa. Bardot come fantasma pop nel cinema italiano Brigitte Bardot entra nel cinema italiano anche per assenza, come immagine mentale, come nome pronunciato, come feticcio. In Il sorpasso di Dino Risi, la celebre Lancia Aurelia B24 Spider guidata da Vittorio Gassman non ostenta Bardot: la nasconde. Una piccola targhetta adesiva con la scritta ironica “Non correre”, accompagnata da una sua fotografia, è appiccicata nel vano portaoggetti. Un dettaglio laterale, quasi infantile. Bardot come promessa di libertà irraggiungibile, mentre l’Italia corre verso il boom e la tragedia. Nella commedia popolare, il suo nome diventa suono, ritmo, liturgia comica. In Il monaco di Monza con Totò e Macario, una litania si trasforma in canzone e finisce per evocare Brigitte Bardot, brano del 1960 di Miguel Gustavo. Il sacro e il profano si confondono. Bardot diventa parola magica, icona sonora. E poi c’è Alberto Nardi, il commendator mitomane interpretato da Alberto Sordi ne Il vedovo. Legge sul giornale una notizia qualunque: “Brigitte Bardot aspetta un bambino”. Commenta secco: “E chi se ne frega”. È una battuta che racconta un Paese intero: i miti servono a misurare la frustrazione, poi vengono consumati e scartati. Bardot, anche qui, non serve a raccontare lei: serve a raccontare noi. L’Italia oltre i film: un sentimento prima che un luogo Il legame di Brigitte Bardot con l’Italia non si esaurisce nel cinema. Continua fuori dal set, nei gesti, nelle abitudini, nei ritorni. Venezia, Cortina, Portofino, Capri, Roma: non come cartoline, ma come spazi di libertà. Bardot amava l’Italia perché qui poteva essere insieme diva e ragazza, fotografata eppure protetta, desiderata ma non ingabbiata. Parlava italiano con naturalezza, lo aveva imparato prima ancora del francese grazie alla sua bambinaia lombarda. Lo usava come una lingua affettiva, intima. In Italia pattinava sul ghiaccio, saliva in barca, passeggiava senza un copione. Anche quando il mito era già esploso, continuava a tornare qui come si torna in un luogo che non chiede spiegazioni. E quando, più tardi, scelse di allontanarsi dal cinema per dedicarsi alla difesa degli animali, fu ancora all’Italia che si rivolse, scrivendo lettere, prendendo posizione, cercando ascolto. Non era nostalgia: era riconoscenza. Perché l’Italia non le aveva solo dato un’immagine. Le aveva insegnato che la libertà può essere anche una forma di bellezza. Forse, senza l’Italia, Brigitte Bardot non sarebbe mai diventata Brigitte Bardot. La Francia le ha dato i natali, l’ha celebrata. L’Italia, per certi versi, l’ha inventata.

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Brigitte Bardot e l’Italia: amori, cinema e libertà di un mito irripetibile

Paolo Nizza