Povertà abitativa, un fattore di rischio per le vittime di violenza

Come si può fuggire da una situazione di violenza se non si ha un posto dove andare? La povertà abitativa non inizia quando si perde una casa, ma quando non si ha più la libertà di viverla come un posto sicuro. Quando da spazio protetto diventa un luogo di violenza, molte donne restano intrappolate in un circolo vizioso che le costringe al silenzio. E le fa restare tra le mura in cui si consumano gli abusi. Perché se denunciare è già estremamente difficile, farlo sapendo di non avere un luogo dove rifugiarsi lo è ancora di più. E questa incognita rappresenta un deterrente pericoloso per molte donne. Secondo una ricerca di Women’s Aid, il 68,4% delle donne vittime di violenza domestica non lascia il proprio aggressore per il timore di non poter avere accesso a un alloggio sicuro. La povertà abitativa e la violenza economica sono fenomeni profondamente connessi: la mancanza di risorse economiche rende difficile trovare - o mantenere - un’abitazione sicura, esponendo molte donne al rischio di dipendenza e ricatto. Spesso questa fragilità materiale spinge le vittime a restare in relazioni pericolose e a mettere a rischio la propria incolumità e quella dei figli. Come si manifesta la violenza economica “I dati ci dicono che la violenza economica - che si riflette poi sulla povertà abitativa - interessa circa il 40 per cento delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza. Nel nostro caso superiamo il 50%”, spiega a SkyTG24 Insider Sofia Leda Salati, direttrice del Centro Antiviolenza Ersilia Bronzini di Milano, sottolineando che la povertà abitativa è uno dei temi che impediscono a una donna di compiere la scelta coraggiosa di allontanarsi, talvolta con i propri figli, da una situazione di maltrattamenti. La povertà abitativa è spesso strettamente connessa alla violenza economica, che si manifesta quando “una donna non possiede un conto in banca intestato a sé, né ha accesso al conto familiare, e se percepisce un reddito lo versa sul conto intestato al maltrattante. Spesso chi è vittima di violenza economica è intestataria di debiti ma mai di beni”, spiega Salati. Per chi si trova in una situazione simile andare via spesso significa anche dire portare con sé un debito da saldare che rende ancora più difficile accedere sia al mondo del lavoro che a quello delle case, degli affitti. “Ottenere un’abitazione propria diventa molto complesso”. La violenza economica ostacola quindi ogni possibilità di autonomia abitativa. E la povertà abitativa può diventare così al tempo stesso causa e conseguenza della violenza: causa, perché la mancanza di una casa o di un reddito stabile alimenta la vulnerabilità e favorisce la reiterazione degli abusi; conseguenza, perché la perdita di indipendenza economica impedisce di scegliere. “La povertà abitativa permette agli uomini maltrattanti di non fermarsi: sanno che la compagna o la moglie fatica a immaginare un futuro diverso e uscire da quella casa. E se trova il coraggio di farlo, sa che si troverà nella difficoltà di non sapere dove andare”, spiega la direttrice del CAV Ersilia Bronzini che in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà richiama l’attenzione su questa emergenza insieme alla Fondazione Asilo Mariuccia, onlus attiva dal 1902 nel sostegno a donne e minori vittime di violenza. "Per molte donne andare via di casa con i propri figli significa innalzare il livello di paura per la propria e la loro incolumità: spesso si resta sperando di riuscire a contenere gli agiti violenti dell'uomo maltrattante. E se non si ha un luogo in cui ricostruire la propria vita è ancora più difficile". Quando ci sono bambini, le paure sono amplificate ed emerge anche un altro tema sensibile: quello della conciliazione vita-lavoro, ancora più complessa per le donne sole. L'importanza di chiedere aiuto a un centro anti-violenza La violenza domestica genera nelle vittime paura, isolamento e dipendenza. Per questo, intervenire in modo efficace a loro sostegno significa costruire una rete alternativa a quella della violenza: una rete sociale fondata su fiducia, autonomia e riconoscimento. “Il centro antiviolenza è il luogo a cui ogni donna può rivolgersi in qualsiasi momento, con una telefonata o in presenza, e parlare con operatrici specializzate. Ci si può rivolgere a un CAV anche solo per un confronto, per porre domande e prendere consapevolezza della situazione in cui ci si trova", perché non è sempre è facile capire il grado di pericolosità di una situazione. Per questo è importante sapere di poter fare affidamento sul psicologhe che possono assistere la donna e sostenerla nelle sue scelte. In ogni CAV, spiega la presidente, ci sono operatrici che ascoltano le vittime in colloqui periodici finalizzati a comprendere cosa desidera e dove vuole direzionare il suo progetto di vita. "È sempre lei a decidere. Ma sono scelte complesse, che a queste donne richiedono un enorme investimento di energie sia emotive che fisiche. E se ci sono dei bambini, questo bagaglio diventa ancora più grande". Le case rifugio e i percorsi 'protetti' "Dobbiamo dire alle donne che si trovano in difficoltà di chiedere aiuto ai centri anti-violenza, che sono servizi gratuiti e anonimi dove si può ricevere anche solo un confronto su una situazione. Comprendere la gravità di una situazione da sole è molto difficile perché spesso queste donne vivono in situazioni in cui la svalutazione e la manipolazione della realtà sono talmente quotidiane che loro stesse non riescono a capire se quello che vedono è reale o è frutto di una distorsione". Quindi il centro antiviolenza accoglie una donna e insieme a lei cerca di comprendere il contesto che sta vivendo e valutare quanto è pericoloso, prima di proporle soluzioni che possono essere in campo temporaneamente. "Se la persona si trova in oggettivo pericolo di vita la strada è quella del collocamento in una casa rifugio o in un luogo segreto". Le case rifugio accolgono le donne che si trovano in una fase acuta di fuoriuscita dal percorso della violenza, in cui il pericolo sulla loro incolumità è ancora forte. In questo caso, la donna deve essere inserita in un percorso "protetto" e nella fase iniziale è costretta a sospendere tutto: "Le sue relazioni, il lavoro se lo ha, e persino la scuola dei bambini", spiega Salati. "Nel momento in cui la valutazione del rischio è elevata, deve essere interrotto temporaneamente tutto ciò che può metterla in contatto con il proprio maltrattante". Dopo questa prima fase particolarmente delicata e critica, viene avviato un percorso di ricostruzione della sicurezza e dell'autonomia della donna. Poi la fase del "ritorno", che, spiega la presidente del CAV, può avvenire nel proprio territorio o in un territorio nuovo. La seconda opzione è particolarmente complessa perché richiede la costruzione di una nuova rete sociale, un nuovo posto di lavoro e una nuova situazione abitativa "adeguata a ritrovare un po’ di serenità per sé e i figli". "In alcuni casi è possibile anche pensare di condividere un appartamento con altri nuclei familiari, ma si tratta di una soluzione che richiede ancora una volta dei sacrifici anche in termini emotivi". Dopo un primo momento all'interno di una casa rifugio, se necessario può essere attivato un housing sociale che offre alle donne un passaggio ulteriore di sostegno, con una maggiore libertà di movimento, una maggiore autonomia prima di un rientro definitivo in autonomia. "Questo è un passaggio fondamentale per chi si sta ricostruendo in un territorio nuovo, quindi ha bisogno di tempo per avviare un nuovo progetto di vita". Il diritto alla casa è un diritto di tutte Il diritto alla casa è una questione di dignità, e un diritto di tutti e tutte. In quest’ottica Fondazione Asilo Mariuccia e il CAV Ersilia Bronzini ribadiscono l’urgenza di rafforzare i percorsi di accoglienza e autonomia per le donne vittime di violenza, con particolare attenzione al diritto alla casa come condizione imprescindibile di libertà individuale, sicurezza e rinascita. "Quello che stiamo cercando di fare è costruire convenzioni perché che le donne vittime di violenza possano avere accesso sia a dei percorsi facilitati di contratti di affitto a prezzi calmierati, sia a tirocini e inserimenti lavorativi per potersi mantenere", spiega Salati, sottolineando l'importanza di interventi di supporto come il progetto di Housing sociale avviato quest’anno con il Comune di Corbetta, che offre cinque appartamenti in comodato d’uso gratuito a donne e figli in uscita da situazioni di violenza. Ma non basta: la Fondazione richiama anche l’attenzione delle istituzioni sulla necessità di affrontare con strumenti aggiornati e condivisi le nuove forme di violenza. In questa direzione, è stata avanzata alla Regione Lombardia la richiesta di convocare con urgenza un tavolo di lavoro che coinvolga Regione, Prefetture, Forze dell’Ordine, Tribunale di Milano, Centri Antiviolenza e Case rifugio accreditate, con l’obiettivo di definire un Protocollo Operativo dedicato ai reati di genere. Perché garantire una casa a ogni donna significa assicurarle sopravvivenza, e restituirle il diritto a un futuro.

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Giulia Mengolini