Le mie foto sono finite su Phica, mondo di uomini “imprigionati”

Prego, scomodati ché parliamo di pagare ognuno per sé - ché se io non partecipo a una cena non se ne parla proprio, di fare alla romana. Anni fa, in un giorno fortunato della mia vita - un giorno nel quale ho avuto un’opportunità - mi ritrovai al tavolo da pranzo insieme a Umberto Galimberti, che mentre mangiava con passione e appetito mi parlava del cazzo. Non del pene, non del membro, non dell’organo genitale maschile: noi tra il suo pesce e le mie verdure si parlava proprio di cazzo - che sarà anche un sinonimo dei precedenti, ma il cui uso rimanda ad una scelta di significato precisa che io, in accordo con Italo Calvino che ne esaltava l’”espressività impareggiabile”, trovo irrinunciabile. Il professor Galimberti, emergendo dai fitti arbusti di rovi etimologici che mantengono incerta l’origine della parola, propendeva per il latino captiare, ovvero cacciare nel senso di prendere. Ciò che rendeva la faccenda oltremodo interessante, è che mentre il verbo attivo ha appunto a che vedere con l’atto di espugnare, prendere, penetrare, il suo participio passato significa evidentemente “preso”. Così, il genitale maschile da aggressivo invasore diventa sostanzialmente catturato, prigioniero. “Il cazzo è ciò che è tenuto dentro”, mi diceva Galimberti - che per estensione simbolica diventa ciò che perde identità se non contenuto, avvolto, riposto: serve ancora a qualcosa, se non si ha dove metterlo? I dubbi sull’origine della parola, le cui testimonianze scritte si registrano solo a partire dal XIII secolo, sono incertezze dovute al freno a mano dell’evoluzione del pensiero umano, ovvero al tabù: si ipotizza di cazzo si parlasse ben da prima, ma trattandosi di un’accezione gretta e volgare della lingua, ci si limitava a usare la parola in forma orale, senza lasciare tracce. Essendo purtuttavia sottilissimo il confine tra il pudore e l’ipocrisia, mi piace preferire l’uso di ogni tipo di parola assumendosene la scelta e la responsabilità: se c’è un termine che tiene a battesimo una “cosa” è perché quel qualcosa esiste. Il fatto stesso che ci sia , la rende rilevante in sé - e in quanto tale può e deve essere detta con il suo nome. Se invece non vogliamo usare una certa parola , va bene - ma almeno si dica che dovremmo fare i conti con il nostro rapporto tra noi e la tal cosa, che andrebbe pronunciata in un certo modo ma per la quale ci serve cercarne un altro. Vale per il genocidio a Gaza, valeva per quel paziente che in seduta chiamava la sua amante fidanzata perché “altrimenti mi sembra brutto” , vale per il cazzo e vale per phica.eu, realtà pluridecennale scoperta cinque minuti fa come se non sapessimo che le pulsioni sono state da sempre la manopola di regolazione del mondo. Così (apparentemente per sembrare vivi e contemporanei e dare alla questione un taglio culturale, ma in soldoni per non pronunciare la parola “phica” , phica.eu per i media è diventato “il sito sessista”. Ora: sul cosiddetto sito sessista c’erano finite anche le mie foto e al netto del fatto che fossero immagini prese da frame tv, da interviste e dai miei stessi profili social alla sottoscritta personalmente ha indignato un po’ di più sentir rinominare phica.eu, che leggere di utenti che rilasciavano umori sulla mia iconografia. Considerando infatti che la prima volta della quale ho coscienza di essere stata molestata verbalmente, oggettificata e sessualizzata avevo sette anni , non ho scoperto grazie al phica affair cosa si dica, pensi, faccia dei corpi altrui sia direttamente, che loro malgrado e a loro insaputa. Non mi ha dunque sconvolta, ferita né fatta sentire violata apprendere in che modo ci si riferisca al mio, a quello che ci si farebbe, a come abito le fantasie poco o tanto pornografiche di alcuni, quanto originali o volgari si sia in grado di arrivare a essere per esprimerle. Non mi ha fatto quel tipo di effetto , perché non avverto che la faccenda mi riguardi. Parla di un mio avatar, ma non parla né di me né a me. Dice della mia taglia di reggiseno, d’accordo, e allora? Viene commentata quanto le cose che dico, la persona con la quale sto, il prezzo della mia ultima borsa, la mia condotta sui social. Non dico non sia violento o molesto, quando a volte non addirittura passibile di reato: lo è, ma ci mancherebbe pure che poi debba diventare un mio problema. Le cose delle quali intendo occuparmi hanno la residenza nel perimetro di quel che faccio io. Considerando dunque che non c’è assolutamente nulla di male nel pubblicare le foto che mi va di mettere online, così come non avrebbe in sé criticità alcuna da donna adulta e consenziente inviare immagini mie ad un uomo che mi interessa e che in quel momento non è con me o ancora avere voglia di risultare più o meno affascinante , ripeto: non essendoci alcun profilo di criticità in ciò che faccio non ho di conseguenza intenzione alcuna di farmi carico delle conseguenze, di colpevolizzarmi, di rivalutare il mio comportamento, di fare doppia corvée occupandomi di che effetto mi faccia l’onanismo altrui. Non me ne fa nessuno, ma non perché non mi interessi: ho talmente raggiunto il culto di me stessa che ogni cosa abbia a che fare con me, mi appassiona e mi riguarda. No, non mi impressiona granché perché alla mia vita, al mio equilibrio, alla mia felicità, alla mia autostima non solo non concorre la lascivia dello sguardo altrui, ma per la proprietà commutativa nemmeno le compromettono. A me importo io, non cosa mi faresti tu. Sono troppo cresciuta per non sapere che un altro seno, un altro abito, un’altra bocca non mi riparerebbero dai commenti di chi li vorrebbe possedere - nessuna bambina, ragazza o donna ha caratteristiche che infallibilmente lo garantirebbero. Per le donne più che per gli uomini, esistere equivale a fare effetto - fu questo a far definire la femminilità a Simone de Beauvoir come “una trappola”. Questo tuttavia non assolve i media dal chiamare phica.eu “sito sessista” in luogo del nome del dominio, perché non è mistificando la realtà o cercando circonlocuzioni o eufemismi che andrebbe trattata la questione - che contiene, sì, un aspetto di genere. Tuttavia, non si limita ad essere un aspetto discriminatorio, ovvero sessista. A mia sensibilità, piuttosto, si tratta di un aspetto discriminante: quale tipo d’uomo cerca compagni di battute e masturbazione a fronte di figure bidimensionali e non di persone reali? Che tipo è, la persona che partecipa ad una piazza virtuale di sconosciuti per eccitarsi a vicenda non solo per mezzo di alcune fotografie ma anche - e forse soprattutto - tramite la condivisione delle pulsioni sessuali degli altri uomini? Come funziona il genere di utente che indulge in una sessualità così distante, riparata, lontana dall’incontro reale con l’oggetto? Trovo più che plausibile ipotizzare che sia quello con il cazzo che non si infila perché teme di restare impigliato - ricordi il nostro incipit etimologico, lettore scomodo? Si tratta dell’uomo che porta in sé la paura profonda del fodero femminile, angoscia che la psicoanalisi conosce bene come l’imago della cosiddetta “vagina dentata”, ovvero l’insidia dell’oggetto colpevolmente desiderato capace di punire e intrappolare fino ad evirare il membro che, cercando di conquistare, finisce invece sequestrato. Forse adesso si capisce meglio perché io intanto non mi senta coinvolta in atti di libidine o violenza altrui: parlano di qualcuno che non sono io - seppur tramite me. Nulla mi sporca, se io sono pulita. Mi offende invece mistificare i nomi per le cose, perché confondono la visione e il ragionamento, allontanandoci dal senso: le mie fotografie sono finite su phica.eu, patetico cercare un altro modo di dirlo. Perché non l’ho fondato io, non l’ho amministrato io, non mi ci sono registrata io, non l’ho frequentato io, non gli ho trovato io il nome e non ho niente di cui vergognarmi, né tantomeno ho intenzione di fare il favore di chiamare una cosa con il nome preso da un’area semantica tangente, dovendomi anche sciroppare il fatto che anziché essere esclusivamente una responsabilità di uomini adulti dalla sessualità immatura, la faccenda passi per essere l’ennesima lamentela femminista.

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Le mie foto sono finite su Phica, mondo di uomini “imprigionati”

Stefania Andreoli