Quella violenza sui social che colpisce la nostra empatia naturale

La vicenda del professore di Cicciano Stefano Addeo, che tenta di togliersi la vita dopo avere scatenato l’indignazione generale per un post in cui augurava la morte alla figlia di Giorgia Meloni, potrebbe limitarsi a vederci in prima battuta partecipi di quell’indignazione e poi mossi da umana pietà per chi evidentemente non è in grado di sostenere il peso delle proprie emozioni, dei propri pensieri e dei gesti. Se non fosse che, in questo spazio, ci stiamo abituando a non sottrarci mai alla possibilità di un faccia a faccia con noi stessi a cui ci chiamano i cosiddetti fatti di cronaca. Anche e soprattutto se, appunto, ci indignano. Se troppo facilmente ci verrebbero incontro con la lusinga di farci sentire delle persone belle, ragionevoli. Dalla parte del giusto. Il caso di Pietro Taricone Personalmente, cominciai a preoccuparmi per i freni inibitori che slaccia ritrovarsi da soli davanti a una tastiera e con la sensazione di parlare a un pubblico, ma rimanendo incappucciati, quando morì Pietro Taricone, quindici anni fa, in quel tragico incidente con il paracadute. “Finalmente si sfracella uno così e non un operaio che cade da un’impalcatura”. “Se l’è cercata.” “Che coglione, morire così, degno di lui!”. Sono solo alcuni dei commenti che ricordo fiorirono su Facebook, e che contribuivano a trasformare il dolore che provavo in un’allucinazione. Conoscevo Pietro, gli volevo molto bene: come era possibile che quegli individui, al di là di quanto il personaggio famoso gli avesse o non gli avesse trasmesso, non si rendessero conto che dietro a quel personaggio c’era una persona, un uomo di trentacinque anni che aveva una compagna, una figlia, due genitori, degli amici? Com’è possibile, mi sono chiesta ciclicamente, negli anni, mentre aprivo anche io un profilo Facebook, e poi uno Instagram, che non si rendano conto che dietro alla scrittrice che magari non gli piace, che da quanto non gli piace può arrivare anche a irritarli, ci sia una donna, una mamma, un essere umano che, come tutti, prova a tenersi in equilibrio fra splendori e miserie, fra pene e sorrisi suoi e di chi ama? Il senso di impunità che generano i social “Non sono stato io, quel post l’ha prodotto l’Intelligenza Artificiale”, è stata la grottesca autodifesa del professore di Cicciano. La cui prima parte, però, ci interessa: perché in certi casi estremi, quando sulle mie pagine ho ricevuto offese particolarmente pesanti, confesso di essere andata a studiarmi i profili di chi poteva covare dentro di sé tutto quell’odio, al di là che a ispirarglielo fossi io. E ho sempre trovato foto di professioniste e professionisti, professori medici avvocati, abbracciati alla moglie, al marito, ai figli. Al cane. Persone che, appunto, non erano state loro: non potevano essere state loro, se essere loro significa avere quella moglie, quel marito, quel cane. Una vita. Chi è, dunque, se non siamo noi per intero, che può arrivare a prendersela con una bambina di sette anni, perché muoia, e con un uomo di trentacinque che è morto? Cosa c’è in latenza di così poco intelligente e così poco artificiale, dentro di noi, che la sensazione di impunità garantita dai social scatena? E, soprattutto: mentre quei post li leggiamo, mentre investiamo del tempo per capire da dove provengono, non diventiamo anche noi complici di questo gigantesco attentato all’E.N., la nostra Empatia Naturale?

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Quella violenza sui social che colpisce la nostra empatia naturale