Perché i ragazzi con la pistola chiamano in causa la camorra. E noi

I ragazzi con la pistola sono sempre più giovani. E sempre più bassa è l’età nella quale si muore e si uccide, in certi contesti, a Napoli. Lo ha notato il Procuratore capo, Nicola Gratteri, parlando giorni fa alla conferenza stampa che ha seguito i sedici arresti per due omicidi, in una complessa indagine che ha visto protagoniste due Procure, ordinaria e Minori, e insieme Polizia e Carabinieri. Nella notte del 24 ottobre 2024 muore Emanuele Tufano, 15 anni: viene colpito durante un conflitto a fuoco al quale partecipa; i giovani sono armi in pugno, in pieno centro storico di Napoli, dove da tempo si parla della fortuna internazionale e della rinascita della città grazie al turismo. Ma non è proprio così. Eccolo, il gruppo del Rione Sanità contro il gruppo di piazza Mercato: sei motorini con dodici ragazzi, tutti giovanissimi, molti minorenni; dall’altra parte sui motorini ci sono quattro giovani, tre dei quali minorenni. Ma a colpire il 15enne Tufano non sono i nemici: sono, per errore, i suoi amici, mentre si scatena la pioggia di proiettili. “Qualcuno deve pagare”, la logica del clan A distanza di mesi, 25 Marzo, la vendetta si consuma su quello che, di bocca in bocca, è diventato l’obiettivo facile di quella notte: Emanuele Durante, 20 anni, tra i pochi a non essere considerato dagli investigatori organico alla camorra, ma già con diversi reati alle spalle e da tempo attratto dalle cosiddette “cattive compagnie”; per un tragico intreccio di destini è parente di Annalisa Durante, vittima innocente della criminalità organizzata a soli 14 anni, nel quartiere Forcella di Napoli, nel 2004. Il colpo mortale per Emanuele Tufano è partito per errore, nella follia di spari da far west durante i quali si mira ad altezza uomo, si vive o si muore, come ha descritto la Procuratrice dei Minori Patrizia Imperato. E qualcosa va storto. Scatta l’indagine interna al “sistema”: il clan Sequino del Rione Sanità, al quale la vittima è legata perché imparentata con un elemento di spicco. Nella loro logica “qualcuno deve pagare”, sottolinea Giovanni Leuci della Squadra Mobile. Quel qualcuno viene identificato in Emanuele Durante: quelli che erano con lui nella notte del “fuoco amico” gli addebitano senza alcun fondamento di averli condotti nella strada dove erano stati inseguiti dal gruppo rivale, quello di Piazza Mercato. Incontro e inseguimento - pare - determinati da uno scambio di sguardi in una paninoteca frequentata dal gruppo del Mercato, “un’invasione di territorio” dalla quale nasce il conflitto a fuoco. Ma forse nemmeno questo: l’assenza di un movente sicuro, per un’azione così grave, è uno degli elementi più preoccupanti, come sottolinea Emilio Coppola, avvocato di uno dei giovani che avrebbe partecipato a quello scontro armato tra bande. L’indagine interna alla camorra e la pena capitale Emanuele Durante era davanti al gruppo, sul motorino, e questo basta a fargli addebitare la colpa di un sotterraneo accordo con i nemici di piazza Mercato. Il sistema decide: è sacrificabile e deve morire. Viene prima convocato al cospetto del clan; tutto pare appianato ma sarebbe una trappola. Lui forse intuisce di essere nel mirino, secondo gli inquirenti. Non sembra tranquillo, così come non sembra esserlo la sua famiglia, che gli rimprovera di essere stato attratto dalle cattive compagnie ma condivide lo stesso contesto di quartiere con quelle persone, che conosce. La madre lo accompagna a questa sorta di interrogatorio. Poi sembrano cominciare le paure, con intercettazioni che lo testimonierebbero, tra cui: “Un altro poco e muoio”, scrive Emanuele alla madre, a più riprese. “Manca poco”. E poi: “Mamma, io muoio presto, non dimenticarti”. In seguito, il padre via chat mostra al figlio la canna di una pistola. E lui: “È buono il prezzo di 300 euro, prendila”. Potrebbe averla comprata per paura di doversi difendere da un’aggressione, riflettono gli inquirenti. Aggressione che, nei confronti del ragazzo, nei mesi precedenti la morte ci sarebbe effettivamente stata: sarebbe stato accoltellato. La morte plateale di Emanuele Durante e l’omertà La morte violenta arriva davvero, tra questi giovani col futuro - spesso - già segnato. E accade in maniera plateale, sotto lo sguardo implacabile delle telecamere di videosorveglianza. Per la morte di Emanuele Durante sono accusati Salvatore Pellecchia, classe 1996, considerato il mandante dell’omicidio, condannato in via definitiva per associazione mafiosa, elemento di spicco del clan Sequino; Aleksandr Babalyan, 1999, anche lui condannato in passato per appartenenza al clan Sequino, considerato l’esecutore materiale; Salvatore Brandi, 1994, legato da una parentela con Pellecchia e quindi con la vittima della sparatoria di ottobre 2024, Emanuele Tufano. I tre seguono Durante, che è in auto con la fidanzata, lo affiancano, sparano, dopo lunga organizzazione e premeditazione: questa la ricostruzione degli inquirenti. Tutti a volto scoperto. Un messaggio chiaro: chi sbaglia paga. Con la vita. In seguito, in base a quello che emerge dagli atti dell’inchiesta, persino la fidanzata di Durante avrebbe taciuto di fronte a qualcosa che era stato chiarissimo anche a lei, e di fronte a nomi e volti che avrebbe conosciuto. A corroborare questa tesi, anche diverse intercettazioni. Omertà e paura regnano. Mesi prima, c’era stato qualcuno che aveva intuito subito il pericolo: la madre di un ragazzino, anche lui minorenne, che era in sella allo stesso motorino di Tufano. Venne solo ferito. La madre, sempre in quel contesto di conoscenze in zone impregnate da dinamiche criminali che spiegare non è facile senza cadere in luoghi comuni, si disperava per quello che aveva combinato suo figlio, al quale rimproverava la vicinanza a un altro giovanissimo, che a quanto pare avrebbe avuto il grilletto facile. Parlava molto ed è stata molto intercettata dalle forze dell'ordine: dai suoi discorsi sembrerebbe emergere con chiarezza che la donna progettava di andare via da Napoli e prima ancora aveva denunciato per altri reati quel figlio difficile, che infatti è finito in carcere poco dopo i fatti tragici dell’Ottobre 2024. Forse per salvarlo da ritorsioni o da altre scorribande armate. Lo richiamava più volte alla gravità di quello che era accaduto, e dalle intercettazioni traspare subito la paura che il 17enne potesse essere incolpato dai familiari della vittima per la morte dell’amico. “Hanno passato la pistola in mano ai ragazzini” A dirlo, nominandola più genericamente come “cosa”, è la madre di uno dei minorenni poi arrestati, che facevano parte del gruppo di piazza Mercato. Ne parla senza peli sulla lingua con una insegnante della zona, subito dopo i fatti di piazza Mercato. Non si sa, in definitiva, chi abbia esploso il colpo fatale, anche se nei contesti criminali circola insistentemente un nome, che non è quello di Durante. Appare chiaro da subito che non sono stati “quelli” del Mercato in una sparatoria che potrebbe addirittura essere avvenuta per caso, per una sfida estemporanea che avrebbe generato un far west in pieno centro storico. Non si sa, in definitiva, nemmeno il movente preciso. Però i ragazzi con la pistola tra loro si vantano, eccome: “Vorrei andare a sparare a qualcuno, vorrei guardarlo negli occhi mentre muore”, si legge tra le chat del gruppo della Sanità. Culto delle armi, della violenza, del sangue, dei soldi. Oltre ai canali più tradizionali e più utilizzati, cui fa riferimento la madre del ragazzino, c’è anche tanto dark web, tra questi giovanissimi, che lì trovano armi, droga, soldi falsi. Tutto facile: soprattutto morire.

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