
Le condanne vanno da quattro mesi ad un massimo di due anni per gli imputati. La Procura aveva chiesto pene fino a cinque anni e otto mesi
Il gup del tribunale di Reggio Emilia Silvia Guareschi ha condannato i dieci agenti della polizia penitenziaria imputati, ma a pene più basse di quelle chieste dalla Procura, riqualificando i reati. Non fu quindi tortura, ma abuso di autorità contro detenuto in concorso, non furono lesioni ma percosse aggravate. Il falso invece ha retto per i tre imputati a cui era contestato. Le condanne vanno da quattro mesi ad un massimo di due anni per gli imputati. La Procura aveva chiesto pene fino a cinque anni e otto mesi.
Il verdetto
Un verdetto che viene accolto con soddisfazione dalla difese e con gioia e commozione dai tanti colleghi e parenti degli imputati, presenti da ore in tribunale, in attesa della lettura del dispositivo del gup Silvia Guareschi. Anche le lesioni ipotizzate nell'imputazione secondo il giudice sono le meno gravi percosse aggravate. Regge, invece, l'accusa di falso per i tre a cui era contestata. Risultato: l'agente della Polizia penitenziaria Luca Privitera condannato a due anni, la pena più alta (per lui la pm Maria Rita Pantani aveva chiesto cinque anni e otto mesi), un anno per i colleghi Andrea Affinito, Giampietro Urso, Giuseppe Mastino, Angelo Pio Latino, Giovanni Navazio, sei mesi e 20 giorni per Federico Lioce, quattro mesi per Angelo Di Pasqua, Giuseppe Valletta, Umberto Esposito. Sono ancora tutti sospesi dal servizio. Quando il video venne pubblicato sui media, circa un anno fa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio parlò di immagini indegne di un paese civile. "Quello che è successo nel carcere di Reggio Emilia quel giorno è un fatto gravissimo, un qualcosa che esula dai limiti del nostro ordinamento e che non dovrebbe accadere a nessuno e per nessuna ragione". Anche il pubblico ministero Maria Rita Pantani, nel corso della sua requisitoria, aveva usato parole nette: quanto accaduto nel carcere di Reggio Emilia, disse in aula rivolta ai giudici, si configura come "un'azione brutale, punitiva e preordinata, di violenza assolutamente gratuita". "Il detenuto, inerme, bloccato e già privato della libertà è stato incappucciato, calpestato, pestato, denudato con violenza, anche delle mutande. Una condotta di questo genere, in uno stato di diritto, non può che essere definito come tortura", commenta il difensore di parte civile per il detenuto, l'avvocato Luca Sebastiani, "perplesso e attonito" dalla decisione. "Le condizioni delle carceri italiane, in cui lavorano ogni giorno gli agenti della penitenziaria le conosciamo e ce ne indigniamo costantemente, ed hanno senz'altro contribuito a produrre quanto accaduto. Tuttavia, di fronte a fatti così gravi ci deve essere una linea che separa ciò che è giusto da ciò che non lo è. Ed in questo caso, basti guardare le riprese del sistema di videosorveglianza, questo confine è stata senz'altro superato", aggiunge il legale. Il giudice ha riconosciuto diecimila euro di provvisionale al detenuto e il risarcimento da liquidarsi in sede civile, oltre che al tunisino, ai garanti nazionale e regionale (il garante dell'Emilia-Romagna Roberto Cavalieri era presente in aula) e alle associazioni Antigone e Yairaiha Ets. "Sono soddisfatto - commenta l'avvocato Federico De Belvis, difensore di tre agenti - per la derubricazione del reato di tortura e ricorreremo in appello in ogni caso". "La sentenza ha ascoltato le nostre tesi, se c'erano state sbavature, come le abbiamo definite, certo non si poteva parlare di fatti di tortura", ha detto Nicola Tria, difensore di un altro imputato. "E' stato un contenimento di un detenuto molto problematico, prima di venire a Reggio Emilia era stato allontanato da altri carceri", ha aggiunto l'avvocato Pier Francesco Rossi.
