Giorno del Ricordo, quel che resta di un esodo

Il Giorno del ricordo è stato istituto nel 2004 in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo dai territori dell’Istria e della Dalmazia alla fine della Seconda Guerra mondiale. Ripercorriamo quei tragici fatti con l’aiuto dello storico triestino Raoul Pupo, uno dei massimi studiosi della frontiera adriatica. Professor Pupo, partiamo dal Magazzino 18 di Trieste. Che luogo della memoria è diventato nel tempo? “Il magazzino 18 o 26, nel tempo sono cambiati, erano dei magazzini del vecchio porto di Trieste dove sono state ammonticchiate parte delle masserizie degli esuli giuliano dalmati, cioè di quelle persone di sentimenti oltre che di nazionalità italiana che dopo la Seconda guerra mondiale hanno dovuto abbandonare le loro terre natie e trasferirsi in Italia, non perché fossero state formalmente espulse, non c’erano stati nei loro confronti dei provvedimenti, ma perché la situazione si era fatta invivibile, in particolare non riuscivano a mantenere la loro identità italiana così come la sentivano e quindi hanno scelto di andare via, sono scappati clandestinamente rischiando la vita, oppure hanno optato per la cittadinanza italiana. La loro è stata insomma una scelta di costrizione, perché l’alternativa era stare male e perdere la propria identità. Se ne sono andati in Italia, sventagliati in tantissimi posti e portandosi dietro i loro beni mobili, le loro masserizie, ma sono finiti in campi profughi o in situazioni ancora più difficili, come scuole e caserme, e quindi le loro cose vennero ammassate in depositi come quello del porto vecchio di Trieste. Molti vennero poi a recuperarle quando, dopo dieci, vent’anni, riuscirono finalmente ad avere una casa, altri invece emigrarono oltreoceano, e quindi le loro masserizie sono rimaste lì, come uno straordinario deposito di memoria che ci racconta la storia di un popolo che ha dovuto abbandonare tutto e andarsene nella sua completezza”. Si può descrivere un esodo partendo da quegli oggetti, quasi che la storia fosse rimasta impigliata in quelle masserizie abbandonate? “Si si può, ad esempio si vede un negozio da farmacista, praticamente così com’era, oppure le camere da letto con i ritratti, talvolta con povere cose talvolta con mobilio più importante, questo perché ad andar via è stata un’intera comunità nazionale, nel completo delle sue stratificazioni sociali. L’esodo è stato totale, dall’ultimo dei contadini fino alle persone più ricche, i borghesi e i nobili. L’ammasso di quelle masserizie dà l’idea di una vita interrotta, c’è un tempo sospeso che è quello dell’esilio prima che si consolidi un inserimento, che poi c’è stato, ma è stato lungo, faticoso e doloroso”. Anche Trieste è rimasta per anni una città sospesa. Perché? “La maggior parte dei profughi non è passata per Trieste, perché fino al 1954 la città non apparteneva più all’Italia, teoricamente faceva parte di un territorio, di uno Stato libero che però non è mai stato costituito, di fatto sottoposta a un’amministrazione militare provvisoria anglo-americana; non si sapeva che cosa sarebbe successo; quindi, la maggior parte dei profughi è stata sventagliata nel resto di Italia. A Trieste sono arrivati i profughi della Zona B del Territorio Libero di Trieste, che vuol dire le cittadine del Golfo di Trieste, dopo che è diventato chiaro che la città sarebbe tornata all’Italia e che questi luoghi restavano alla Jugoslavia. Una vita sospesa dunque, perché non si sapeva quale sarebbe stato il destino della città”. “Gli altri italiani, una volta perduta l’Istria torneranno nelle loro case, ma noi dove andremo?” scriveva Guido Miglia, direttore del giornale L’ Arena di Pola nei giorni dell’esodo in massa dalla città, nel febbraio del 1947. Tanti di quei profughi continuarono il viaggio verso luoghi lontanissimi, l’America o l’Australia, quasi che lì il ricordo facesse meno male. Perché? “Fondamentalmente perché non trovavano un posto di lavoro, un inserimento. L’Italia in cui sono arrivati i profughi era l’Italia del dopoguerra, non solo sconfitta, ma distrutta in cui c’erano milioni di sinistrati, cioè di persone senza casa e quindi c’era una competizione per l’alloggio spaventosa; un’Italia con gravissimi problemi di disoccupazione e quindi per anni queste persone, gli esuli, sono rimaste nei campi profughi e non sempre hanno trovato condizioni lavorative favorevoli, in molti dovettero vivere per anni di sussidi. Alcuni di loro non ce l’hanno fatta e si sono inseriti nelle liste di emigrazione, andandosene in America e in Oceania. Come si fa oggi a spiegare i massacri delle foibe ai più giovani, alle generazioni che non hanno vissuto quei fatti? “Purtroppo, forse è più facile ora che qualche anno fa, perché basta accendere la televisione che si apprendono notizie di fosse comuni: in Europa è di nuovo scoppiato l’orrore, lo stesso vissuto negli anni ’40 con l’eccidio delle foibe. Ci sono massacri, ci sono vittime innocenti e c’è la necessità, triste ed orribile, di far sparire nel più breve tempo possibile grandi masse di cadaveri, perché di questo si tratta: di luoghi di occultamento delle vittime di stragi. E le stragi, purtroppo, continuano”. E oggi quei luoghi, a partire dalla foiba di Basovizza, che memoria tramandano e che cosa sono diventati? “A Basovizza il vescovo di quegli anni, Antonio Santin, pronunciò una preghiera in cui la definì un calvario con il vertice sprofondato nella terra, ecco questo è il primo messaggio. Al di là del fatto storico concreto, che è specifico e complesso, evidentemente è un luogo di memorie tragiche, degli eccessi a cui possono portare i radicalismi nazionali e ideologici, l’orrore, l’umanità calpestata; il secondo messaggio è la riconciliazione, perché su alcuni di quei luoghi, e penso in particolare ai due monumenti di Basovizza, quello delle foibe e il monumento ai fucilati sloveni, c’è stato il grande incontro di riconciliazione tra i Presidenti italiano e sloveno nel 2020. Mattarella e Pahor, tenendosi per mano, non hanno detto i mei morti e i tuoi, ma i nostri, le nostre vittime. Innocenti, non innocenti? E chi lo sa, vittime comunque della storia e del male che i popoli si sono causati reciprocamente, dunque un grande gesto di riconciliazione. Ora, noi abbiamo davanti due strade per ricordare, che possono camminare in parallelo: il ricordo della tragedia, della memoria offesa, dell’orrore, e il ricordo della riconciliazione. Ecco, dovremmo stare attenti a non disgiungere mai queste due strade”. L’istituzione del Giorno del Ricordo nel 2004, che scelta è stata? “È stata innanzitutto una scelta di risarcimento morale, nel senso che esistevano ancora persone, famiglie, anche se in numero ridotto ma significativo, che avevano vissuto quei drammi, poi si erano integrate nella società italiana, ma a prezzo del silenzio, del non parlarne più per tante ragioni: l’Italia, non solo quella politica, non voleva più sentire parlare di quei tragici fatti. Il Giorno del ricordo è stata un’opera di ricucitura di questa ferita, che era rimasta aperta. Inoltre, ha attirato l’attenzione del pubblico, degli studiosi, dei media, su una parte di storia italiana che era stata dimenticata e anche questo è importante, evidentemente. Dopo oltre vent’anni e la situazione è completamente diversa: non è più una memoria svanita, ormai è una vicenda conosciuta e quindi si tratta di capire come vivere oggi il giorno del ricordo, che deve esser una maniera diversa rispetto a un quarto di secolo fa”. C’è una distinzione tra esuli e profughi, qual è la definizione corretta di chi partì da quelle terre? “Il termine ufficiale della legislazione italiana è profughi, e quello che loro avevano in mano era il certificato di profugo, questo è il termine corretto. Ma, soggettivamente, loro preferivano e preferiscono tutt’ora chiamarsi esuli, perché ricorda l’esodo biblico e ricorda l’esilio, ricorda l’esodo dei patrioti italiani durante il Risorgimento, quindi è un termine ricco di significato emotivo, politico e sentimentale. Così, io li chiamo esuli, come loro preferiscono, pur sapendo che il termine profughi è corretto”. Uno dei suoi ultimi libri si intitola Adriatico amarissimo. Perché? “Il titolo l’ho copiato da D'Annunzio: per lui era amarissimo perché dominato dall’Austria, invece per me è amarissimo perché le popolazioni delle coste adriatiche hanno vissuto una storia drammatica, fatta di conflitti iniziati alla fine dell’Ottocento ma diventati drammatici nel corso del ‘900. Una storia di esodi, di ferite terribili che i due popoli si sono inferti e conclusasi con l’esodo giuliano-dalmata, che l’ha risolta come sono state risolte tante altre conflittualità nazionali del dopoguerra, cioè spostando le popolazioni e impoverendo l’Europa centrale di quella grandissima ricchezza che è la sua pluralità, che è stata cancellata. Una notazione triste: si pensava che quelle logiche fossero ormai scomparse, mentre vediamo che si sono poi ripetute con le guerre balcaniche e si ripetono ora sempre lungo quella grande faglia sismica centro-europea che va dal Baltico e poi scende giù verso Adriatico, il Mar Egeo e fino al Mar Nero. Una faglia, purtroppo, ancora attiva”. C’è qualcosa che vuole aggiungere alla fine di questa intervista? “Sì, la pietà. La pietà nel senso che quando noi ci accostiamo questi drammi, prima di tutto gli storici ma poi chi commemora, soprattutto i politici, talvolta si dimenticano degli aspetti umani o vi si accostano in maniera unilaterale. Tanti giudizi storici si possono dare a quelle vicende, perché sono effettivamente molto complicate, però penso che lo sguardo principale debba essere quello della pietà: pietà nei confronti delle vittime, pietà nei confronti dei popoli che hanno attraversato quelle vicende drammatiche. Di questo, oggi, abbiamo bisogno”.

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