La testimonianza davanti ai giudici della Corte d'Assise di Roma nell'ambito del processo a carico di quattro 007 egiziani per la morte del dottorando italiano dell'Università di Cambridge, rapito a Il Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani
Prosegue il processo a carico di quattro 007 egiziani per la morte di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell'Università di Cambridge rapito a Il Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani. In queste ore ha preso la parola in aula un teste protetto. "Sentii dire dal maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif: 'Nel nostro paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano che pensavamo fosse della Cia ma anche del Mossad. Era un problema perché era popolare fra la gente comune. Finalmente l'abbiamo preso. Lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto. Io l'ho colpito'". Questo quanto riferito nella testimonianza nella quale emergono le parole di uno degli imputati in un ristorante a Nairobi nel settembre del 2017. Nel processo, va ricordato, a giudizio ci sono il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e proprio il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif.
Il dialogo a ristorante
Il teste, nel suo racconto dettagliato quanto cruento, ha ricostruito quanto avvenuto quel giorno. All'epoca dei fatti il testimone vendeva di libri e si trovava al ristorante per incontrare un professore dell'università di Nairobi che voleva acquistare alcuni volumi. "Sentì due uomini accanto a lui che parlavano”, ha riferito il teste davanti ai giudici della Corte d'Assise di Roma. “Al tavolo accanto erano seduti un funzionario della sicurezza keniota e un egiziano, sceso poco prima da un veicolo diplomatico egiziano. Erano a distanza di circa due metri da me: non c'erano tavoli fra noi. Hanno iniziato a parlare delle elezioni presidenziali in Kenya, parlavano in inglese. Parlavano di tensioni e scontri con la polizia dopo il voto contro la legittimità delle operazioni di voto. e di vittime che c'erano state”. Inoltre, ha dettagliato, “criticavano l'Unione Europea che manifestava solidarietà con le proteste. Il funzionario diceva che bisognava restare fermi e che senza ingerenze straniere le forze di polizia avrebbero potuto reprimere 'meglio' le proteste". Il teste ha sottolineato, poi, che l'egiziano avrebbe detto che "l'Unione Europea è un problema grande per noi in Egitto" per poi aggiungere che "nel nostro Paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano che pensavamo fosse della Cia o del Mossad”. L’uomo, ha spiegato ancora il testimone, “sottolineava come questa persona fosse un problema perché era popolare fra la gente comune. Interagiva con la popolazione nei mercati". Quindi, ha argomentato, "ho capito che parlavano di un italiano che era un problema e di cui ne avevano abbastanza”. “Lo abbiamo picchiato e 'io l'ho colpito'. Lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto", avrebbe udito il teste, secondo cui il dialogo durò circa 45 minuti. "Ho sentito il nome Sharif. Il keniota si rivolgeva all'egiziano chiamandolo Sharif. E l'ha salutato per nome, poi l'egiziano si è messo una mano sul petto, molti musulmani rispondono così a un saluto. E si sono scambiati i biglietti da visita", ha concluso.