Oltre 800 pagine di motivazioni per la condanna a tre capi d'imputazione per peculato al cardinale Giovanni Angelo Becciu. La sentenza ha preso in atto un lungo periodo di tempo, a partire del 2012, e ha ritenuto colpevole Becciu e altri per l'uso illecito dei fondi ecclesiastici. I legali di molti di loro hanno già fatto sapere che andranno in appello
Sono contenute in oltre 800 le pagine le motivazioni della sentenza con cui il Tribunale vaticano, lo scorso dicembre 2023, aveva condannato per reati diversi il cardinale Giovanni Angelo Becciu e altre persone coinvolte (Raffaele Mincione, Enrico Crasso, Gianluigi Torzi, Nicola Squillace, Fabrizio Tirabassi e Cecilia Marogna).
All’epoca sostituto alla Segreteria di Stato, il cardinale Becciu è stato ritenuto colpevole di peculato (uso illecito di denaro e beni da parte di chi li gestisce per motivi legati al ruolo) per tre capi di imputazione: la compravendita del palazzo di Londra in Sloane Avenue con fondi elargiti a favore dell'imprenditore Raffaele Mincione, ritenuta "una operazione estremamente rischiosa e incompatibile con l'atteggiamento sempre doverosamente prudente tenuto dall'investitore"; i finanziamenti elargiti alla cooperativa Spes del fratello di Becciu, Antonino, in quanto nonostante la natura caritativa non è possibile elargire fondi tra i propri congiunti fino al quarto grado di parentela; e in ultimo i fondi donati a Cecilia Marogna inizialmente chiesti per salvare una suora rapita in Mali e poi utilizzati per comprare vestiario, arredamenti e beni di lusso.
Il primo capo d'imputazione: il Palazzo di Londra in Sloane Avenue
Per quanto riguarda la prima vicenda, la corte presieduta da Giuseppe Pignatone ha ritenuto comprovato il reato di peculato per l'uso illecito della somma di 200 milioni e 500 mila dollari, "pari a circa un terzo delle disponibilità all'epoca della Segreteria di Stato, perché in violazione delle disposizioni sull'amministrazione dei beni ecclesiastici".
È una vicenda che comincia da lontano e che solo alla fine termina con il palazzo di Londra. L'enorme somma era stata versata tra il 2013 e il 2014 su disposizione di Becciu per la l'acquisto di quote di Athena Capital Commodites, un fondo speculativo (vale a dire un investimento ad alto rischio) collegato a Raffaele Mincione.
Le caratteristiche altamente speculative comportavano un forte rischio sul capitale senza alcuna possibilità di controllo della gestione, ragion per cui il Tribunale ha ritenuto colpevoli del reato di peculato il cardinale Becciu e Mincione, che era stato in relazione diretta con la Segreteria di Stato per ottenere il versamento del denaro "anche senza che si fossero verificate le condizioni previste". In concorso con loro anche "Fabrizio Tirabassi, dipendente dell'Ufficio Amministrazione, ed Enrico Crasso".
Mincione, poi, si servì della somma per l'acquisto della società proprietaria del palazzo di Sloane Avenue e per numerosi investimenti mobiliari, gesti che lo hanno reso colpevole per il Tribunale anche del reato di autoriciclaggio.
Il secondo capo d'imputazione: i finanziamenti alla cooperativa del fratello
Il secondo caso riguarda il versamento da parte di Becciu in due riprese, su un conto
intestato alla Caritas-Diocesi di Ozieri, della somma complessiva di 125 mila euro destinata, in realtà, alla cooperativa Spes di cui era presidente il fratello Antonino
Becciu.
"Pur essendo di per sé lecito lo scopo finale delle somme, il Collegio ha ritenuto che l'erogazione di fondi della Segreteria di Stato abbia costituito, nel caso di specie, un uso illecito degli stessi, integrante il delitto di peculato, in relazione alla violazione dell'articolo 176 che sanziona l'interesse privato in atti di ufficio e vieta l'alienazione di beni pubblici ecclesiastici ai parenti entro il quarto grado".
In breve, i beni ecclesiastici non possono e non devono essere venduti ai propri parenti fino al quarto grado di parentela senza una speciale licenza data per iscritto dall'autorità competente. Autorizzazione che, in questo caso, non c'è mai stata.
Il terzo capo d'imputazione: i fondi a Cecilia Marogna
Si tratta di circa 600 mila euro elargiti a Cecilia Marogna per volere e su indicazione di Becciu. La finalità era quella di favorire il rilascio di una suora colombiana rapita in Mali, ma i soldi della Segreteria di Stato sono stati invece spesi da Marogna in alberghi, capi di vestiario e di arredamento, beni di lusso.
La sentenza ha esaminato la vicenda e l'ha dovosa in due fasi ben distinte: nella prima, Becciu e Marogna si rivolsero ad una agenzia inglese, la Inkerman, specializzata nei casi di sequestri e rapimenti, "cui fu versata in due riprese, tra febbraio e aprile 2018, dalla Segreteria di Stato la somma complessiva di 575 mila euro". In una seconda fase, da dicembre 2018 ad aprile 2019, "una somma di uguale importo fu versata invece, mediante nove bonifici bancari, ad una societa' slovena", la LOGSIC, "costituita ad hoc il giorno immediatamente precedente al primo versamento, facente capo e nella esclusiva disponibilità di Cecilia Marogna.
I legali di Becciu
"Leggeremo con attenzione la sentenza che rispettiamo così come rispettiamo tutte le sentenze - hanno dichiarato i legali di Becciu, Fabio Viglione e Maria Concetta Marco -. La motivazione che attendevamo da tempo è piuttosto lunga e sarà oggetto di studio e di approfondimento. Certamente, per le conclusioni a cui approda, contrasta con quanto emerso nel corso del processo che ha dimostrato l'assoluta innocenza del cardinale Becciu".