La storia di Bilal, arrivato da solo in Italia quando aveva 14 anni
CronacaIl primo viaggio lo ha affrontato a 12 anni in Spagna, scappando dal Marocco, prima su un barcone e poi attaccato sotto ad un camion. Arriva a Malaga, viene segnalato e portato in un centro per minori stranieri non accompagnati, va a scuola ma poi viene picchiato e scappa. Iniziano così le sue fughe. Francia, dove scopre la droga e dove finisce in carcere per la prima volta, poi Germania, Olanda, Svizzera, Svezia. E poi Bilal arriva in Italia
Bilal ha una età indefinita. Non esiste un documento con una foto e una data. Non ha mai contato le candeline sulla torta, non ha avuto una infanzia di palloncini e compleanni. Forse non sa neanche lui quanti anni ha. Bilal è nato a Tangeri in Marocco, dove il detto francese “Tanger, danger” descrive una città bellissima ma pericolosa e, dal racconto che ne fa Bilal, senza speranza di futuro.
Bilal scappa dal Marocco, dalla sua famiglia, dalla mamma e dai fratelli quando di anni ne ha forse 12, e affronta un viaggio per la Spagna prima su un barcone e poi attaccato sotto ad un camion. Arriva a Malaga, viene segnalato e portato in un centro per minori stranieri non accompagnati, va a scuola ma poi – ci racconta- viene picchiato e scappa. Iniziano così le sue fughe. Francia, dove scopre la droga e dove finisce in carcere per la prima volta, poi Germania, Olanda, Svizzera, Svezia. Bilal arriva in Italia quando di anni ne ha forse 13. Nel nostro paese incontra tanti magrebini, qualche ragazzino e tanti adulti che nelle stazioni delle grandi città vivono di furti e droghe, quelle che stordiscono e che rendono ovattate le notti in strada. Viene fermato e arrestato tante volte, non tiene il conto, “forse 20, forse 30”. La sua storia e il suo nome finiscono sui giornali. Bilal diventa il “baby rapinatore seriale”. Il titolo del 20 ottobre di un anno fa recita così: “Fermato il baby rapinatore seriale di Milano”. Ma la realtà è un’altra.
Fughe tra mille difficoltà
Bilal non è stato fermato. Bilal si è voluto fermare. Ed è in questo preciso momento che un incontro, quello giusto, cambia la vita e la storia di un ragazzino senza età. E questo è il racconto di chi ne è stato l’artefice. Parla Don Claudio Burgio che lo ha accolto nella sua comunità Kayros di Vimodrone. Ma la sua voce è quella di tutta la comunità.
Don Claudio quando hai conosciuto Bilal?
“Ne avevo sentito parlare, avevo letto della sua storia sui giornali, poi mi era stato segnalato come un caso particolare. Tutta Italia parlava delle sue fughe e così quando mi hanno chiesto di portarlo da me mi sono attrezzato. Ho preparato un’accoglienza diversa dal solito. Gli ho fatto trovare tanti ragazzi marocchini che parlavano la sua lingua e gli ho fatto capire che aveva una alternativa, poi è iniziato il viaggio con lui”.
Le prime settimane, però, non sono state facili.
“I primi giorni era strafatto di rivotril e altre sostanze; quindi sapevo che non si sarebbe fermato tutto il giorno. Ha continuato a uscire tutte le sere e tornava la mattina con carte di credito, soldi e collanine. Continuava a fare uso di sostanze, ma io lo avevo messo in conto. Alle 7 però, come promesso, era sempre a casa, nel suo letto. Parlava poco e non capiva l’italiano ma noi cercavamo di fargli sentire la nostra presenza e il nostro sostegno. A un certo punto non è più uscito e ha smesso di fare uso di sostanze. Credo si sia sentito accolto. Ha capito che poteva fermarsi, che poteva esserci una svolta“.
Cosa è successo?
“E’ come se avesse fatto pace con sé stesso. Era stanco, della vita di strada e di avere paura e così una sera si è addormentato e non è uscito. Lui la strada la conosce bene. E diffidava degli adulti. Non si rapportava con noi, con nessuno. Ne aveva subite troppe“.
Bilal resta nelle stanze della casa arancione di Kayros. La prima volta che lo incontro è li. Era gennaio. Era un giorno freddo, di pioggia. Non capiva, parlava pochissimo, era assonnato. Poi la svolta. “È stato lui a esprimere il desiderio di studiare e di tornare a scuola. Un giorno mi ha mandato un vocale in cui mi chiedeva di fare più ore di italiano per potere capire meglio. All’esame di terza media è riuscito ad avere 7. Non si è accontentato del 6. La sua caparbietà è stata premiata. Non era scontato”.
La prima cosa che mi ha raccontato Bilal quando, in una calda giornata di fine settembre, sono entrata nella comunità gestita da Don Claudio è stata questa: “Ho fatto l’esame, ora parlo bene, vorrei che tu mi intervistassi, che tu facessi sentire la mia voce.”
Inizialmente ho pensato che Bilal volesse raccontarmi come è arrivato in Italia e cosa ha vissuto in questi anni ma poi ho capito. Bilal voleva mandare un messaggio ai tanti bambini che arrivano in Europa da soli.
“Ogni ragazzo - ci spiega Don Claudio - anche quello messo peggio, ha una capacità di cura che noi adulti non abbiamo. Bisogna partire da lì. Non siamo noi che li salviamo e che cambiamo la loro testa. Noi possiamo fare leva su questo, sulla loro forza e capacità di adattamento, e proporre diverse opportunità. Aiutarli nella cura della persona, sostenerli nell’apprendimento. Qui abbiamo costruito una lingua comune che non è scontata. E quando un ragazzo percepisce che c’è fiducia, si sveglia dal letargo”.
Bilal ci ha detto che non vuole andare via dalla comunità. Don Claudio lo sa e sorride.
“Può stare qui quanto vuole, a prescindere dalle misure restrittive. Qui non esiste un tempo legato alla giustizia. Sarà una sua decisione. Noi lo accompagniamo fino a che il suo cambiamento non sarà completo. Sarà una scelta sua. Sappiamo che ci vorrà tempo”.
Bilal ha il corpo pieno di segni, di botte, di tagli. Non gli chiedo nulla, ma li mostra con fierezza. Quando stiamo per iniziare l’intervista indossa una maglietta che quei segni li copre a stento. Per Bilal sono come dei tatuaggi che gli ricordano da dove è partito e dove è arrivato. Senza un’età anagrafica certa ma con un prima e un dopo precisi. E il ricordo delle prime candeline, quante non lo sa nemmeno lui, spente nella comunità che lo ha salvato.