Matteo Messina Denaro, il padrino che amava il lusso e le donne
CronacaNato a Castelvetrano nel 1962, era il rampollo di una famiglia mafiosa. Boss delle stragi, è ritenuto tra i mandanti degli attentati del ’92 e delle bombe del ’93 di Roma, Firenze e Milano. Accusato e condannato per decine di omicidi, l’ultimo padrino di Cosa Nostra era stato arrestato il 16 gennaio 2023 dopo una latitanza durata 30 anni
Rampollo di una famiglia mafiosa, figlio di Francesco Messina Denaro, morto da latitante. Amante delle donne, delle auto sportive, del lusso. Questo era Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino di Cosa nostra, arrestato il 16 gennaio del 2023 dopo una latitanza durata 30 anni e morto il 25 settembre dello stesso anno. L’ultimo boss delle stragi ancora in circolazione. Ritenuto tra i mandanti degli attentai del ’92 e delle bombe del ’93 di Roma, Firenze e Milano. Un sanguinario. Accusato e condannato per decine di omicidi. Tra questi quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il ragazzino strangolato e sciolto nell’acido perché il padre Santino, collaboratore di giustizia, non si era piegato alle richieste di Cosa nostra e non aveva ritrattato le accuse contro i capi della cupola (LE DONNE INTORNO AL BOSS).
La latitanza
Matteo Messina Denaro ha iniziato la sua latitanza nell’estate del '93. Subito dopo le stragi in continente. La sua ultima traccia fu trovata in Versilia dove era stato in vacanza con i fratelli Graviano, boss di Brancaccio. Poi più nulla. La sua ultima foto segnaletica risale alla fine degli anni ’80. Poi soltanto identikit rielaboriati al computer seguendo quell’immagine. Un fantasma. Che una volta veniva dato in fuga in Sudamerica, poi le tracce portavano in Sicilia. Nell’Agrigentino ma soprattutto nella sua terra, il Trapanese. Dove, di certo, ha trascorso l’ultimo periodo della sua latitanza sotto il falso nome di Andrea Bonafede.
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La malattia
E poi la malattia, quel tumore alla colon che lo ha costretto a venire allo scoperto. A vivere una vita fatta di controlli medici, operazioni, chemioterapia. Ed è stata proprio la malattia a tradirlo e a farlo cadere nella rete della giustizia. Un pizzino trovato a casa della sorella che parlava del cancro ha acceso la lampadina degli investigatori che poi hanno chiuso il cerchio arrestando il boss davanti ad una clinica privata di Palermo.
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Il silenzio davanti ai magistrati
Ai magistrati che lo hanno interrogato subito dopo il suo arresto ha detto poche cose. La prima di non far parte di cosa nostra e di averla conosciuta solo attraverso giornali e tv, di non aver commesso stragi e soprattutto ha tenuto che si mettesse a verbale una sua frase: io non ho ucciso Giuseppe Di Matteo. Poi il silenzio e nessuna risposta a qualsiasi altra domanda. Come i boss Riina e Provenzano prima di lui. Morti in carcere senza mai ammettere nemmeno il furto di una gallina.