Algoritmi? Anche no. Questa e altre tendenze dal Digital News report del Reuters Institute

Cronaca
Marianna  Bruschi

Marianna Bruschi

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TORONTO, ONTARIO, CANADA - 2015/06/25: Man shooting video using mobile phone. Man holding mobile phone with both hands above head height and shooting video. (Photo by Roberto Machado Noa/LightRocket via Getty Images)

Ogni anno, dal 2012, il Reuters Institute pubblica il "Digital News report", un dossier sul  mondo dell'informazione che racconta come oggi ci informiamo, quali piattaforme usiamo, quali sono i problemi e le tendenze. Il report si basa sulle interviste a circa 93mila persone su 46 Paesi

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Ci informiamo ancora tanto sui social, anche se i social sono cambiati. Ascoltiamo più podcast, e di più ne vengono prodotti per coprire non solo l'intrattenimento ma anche le news. I video sono ancora un contenuto molto cercato - ma anche qui, soprattutto sulle piattaforme social - e la nostra predisposizione a pagare abbonamenti digitali è stabile, con ampie distanze tra un Paese e l'altro. Il Digital News Report del Reuters Institute descrive uno spaccato del mondo dell'informazione basato sulle interviste a oltre 93mila utenti. Si parla delle preoccupazioni del pubblico: gli algoritmi che selezionano per noi cosa leggere o guardare, le fake news e la difficoltà a distinguerle da ciò che è reale, la paura di perdersi qualcosa, ma anche la crisi che costringe a disdire abbonamenti o a sperare in prezzi - ancora - più bassi.

 

Il report di 160 pagine offre molti spunti. Si può leggere nella sua versione pdf o navigare attraverso focus e grafici interattivi, alcuni li trovate anche in questo articolo in cui abbiamo selezionato quattro temi. 

1. Algoritmi per dirci cosa leggere? Anche no

 

Siamo abituati alle sezioni “per te” sui social network, così come abbiamo ormai fatto i conti con la selezione di post, video, articoli che viene fatta per noi dagli algoritmi delle piattaforme. Ci propongono contenuti simili a quelli su cui ci soffermiamo, varianti di quello che guardiamo più spesso. Siamo abituati, ma non siamo del tutto convinti che sia la soluzione giusta. Non convince soprattutto quando viene utilizzato il criterio basato sui nostri consumi passati. Qualche dato dal Digital News Report del Reuters Institute aiuta a capire questo (nuovo) scetticismo. Solo il 30% pensa che questa selezione sia buona, ma è comunque una percentuale più alta di chi preferisce una selezione guidata dalle testate giornalistiche (27%), un dato che si lega a una preoccupazione più generale su come le notizie vengono selezionate e proposte al pubblico. 

Il gradimento rispetto alle selezioni affidate alle piattaforme è diverso per fasce d’età: il crollo è del 19% tra gli under 35 in Uk, e del 13% in Usa. Perché questo cambiamento? “Le ragioni non sono del tutto chiare - si legge nel report - Dalla ricerca dello scorso anno sappiamo che molti giovani si sentono sopraffatti dalla negatività che percepiscono nei loro feed social. Sappiamo anche che, invece, l'imposizione algoritmica dei feed di pura cronologia inversa ha causato inquietudine tra i più assidui frequentatori di Facebook, soprattutto, e più recentemente di Twitter”. C’è un altro sentimento che va oltre il semplice apprezzamento o meno, ed è la paura di perdersi qualcosa. C’è un 48% di persone che teme di perdere informazioni importanti e un 46% che ha paura di non poter intercettare punti di vista sfidanti, diversi. 

Non restiamo inermi. Lo scetticismo non vede gli utenti passivi di fronte alla propria dieta di contenuti, si prova a reagire: il 65% tra i più giovani (vengono considerati gli under 35) e il 55% tra gli over 35 dichiara di aver provato a “influenzare” gli algoritmi. Come? Con gli strumenti messi a disposizione dai social stessi: follow e unfollow, blocca, silenzia e così via. L’obiettivo comune non è tanto alleggerire il feed, non si cerca necessariamente divertimento, ma avere una selezione di contenuti più affidabili, meno tossici e con punti di vista diversi. 

2. Come (non) usiamo (più) le piattaforme

 

Se è vero che l’engagement su Facebook è calato è anche vero che invece cresce su TikTok. L’uso dei social network è diverso per fasce d’età - e questo non ci stupisce - sia in generale che come fonte di informazione. Di certo ci sono: il calo di Facebook nella fascia 18-24 (anche su questo nessuno stupore), la crescita di Whatsapp, Telegram e TikTok. Se poi si chiede "quali social avete usato per informarvi" il trend resta quello: crescono e calano i soliti. La seconda tendenza che arriva come una ulteriore conferma degli ultimi anni è sull’utilizzo delle piattaforme e su chi attira/merita maggiormente la nostra attenzione. Mentre su Facebook e Twitter le testate giornalistiche restano quelle più seguite se si cercano notizie su questi due social, quando ci spostiamo su Youtube, Instagram e TikTok la risposta degli utenti è diversa. Ci si sofferma di più su ciò che raccontano gli influencer e in generale i personaggi più noti. Su TikTok c’è un elemento in più: anche le persone comuni sono considerate una fonte di informazione. 




Di diverso c’è però il  nostro modo di interagire con le notizie quando siamo sui social. Siamo passati da un’era di "partecipazione attiva" con le persone che avevano voglia di postare link e commentare, a un’era di consumatori passivi che semplicemente non fanno nulla. Nel mezzo c'è un limbo che interagisce ma con meno spinta (mette un like, magari condivide un articolo). Perché? “In parte, potrebbe essere dovuto a cambiamenti più ampi su quali  social network vengono utilizzati per informarsi - si legge nel report - per esempio il calo generale di Facebook e in particolare tra i più giovani, e allo stesso tempo un diverso focus di Meta, che si è allontanata dalle news, così come la crescente popolarità delle app di messaggistica privata in alcuni mercati in particolare”. Si condivide via messaggio e non pubblicamente.

3. La Norvegia, ovvero il regno degli abbonamenti digitali

Il contesto generale per il mondo dell'informazione non è dei più positivi: taglio dei costi, giornali che chiudono, cali di accesso dalle piattaforme. Una crisi che non colpisce solo i media tradizionali ma è arrivata anche a colpire le testate native digitali, vedi i due casi BuzzFeed News e Vice. Anche per questo molte testate continuano a esplorare quelli che vengono definiti modelli di “reader revenues”, che si basano cioè sul contributo da parte dei lettori. La media, tra i Paesi presi in analisi nel report, di chi paga per le news online è il 17%. L’Italia è costante al 12%. E spicca - come sempre - il caso della Norvegia con il 39%. 

Due dati emergono in particolare. Nel mercato americano il 47% degli abbonati digitali ha disdetto o chiesto di rivedere la formula dell’abbonamento (provando ad abbassare il prezzo) per la crisi. L'altro dato è più orientato a dare un filo di speranza. In questa edizione il Reuters Institute ha approfondito il tema subscription chiedendo a chi al momento non paga per testate online cosa potrebbe spingerli ad abbonarsi. Il 22% ha risposto “contenuti più originali”, c'è voglia quindi di poter leggere, guardare, ascoltare un'informazione meno omologata, il 13% vorrebbe opzioni che prevedano il sito senza pubblicità e un 32% vorrebbe un prezzo basso o comunque più flessibile. Sul versante pessimista della questione, va sottolineato però quel 42% che dice che nulla potrebbe convincerlo ad abbonarsi. 

 

Un’altra novità del report di quest'anno è l'approfondimento su chi ha dichiarato di essere già un abbonato digitale. Le risposte alla domanda "a quante testate sei abbonato" anche in questo caso, non sorprendono. Una ventina i paesi presi in considerazione, solo 4 quelli in cui gli abbonati pagano per due brand: Australia, Stati Uniti (qui c’è un 54% abbonato a testate locali e spesso è l’accoppiata vincente insieme a un brand forte nazionale), Spagna e Francia. Per tutti gli altri non si va oltre il singolo abbonamento. 

Ma torniamo in Norvegia. Perché è così evidente e costante l'abitudine a pagare per l'informazione online? Forte tradizione nella lettura dei giornali e investimenti negli abbonamenti digitali sono due elementi che giocano a favore. Questo insieme all’assenza di free press. E’ tutto il consumo di news che è in crescita nel paese nordico. Anche l’ascolto dei podcast di notizie è molto alto (39%, in Italia è il 30%: sono quelli che dichiarano di aver ascoltato almeno un podcast di news nell'ultimo mese) e anche gli investimenti nella produzione lo sono. Rispetto ad altri Paesi l’uso dei social come fonte di informazione in Norvegia è più basso, anche se TikTok è in crescita e c’è un altro elemento che gioca a favore di questa predisposizione alle subscription: il fenomeno della news avoidance è molto basso. Vediamo di cosa si tratta. 

 

4. News Avoiders: chi sono gli "scansatori" di notizie

 

Di cosa parliamo: la news avoidance è la tendenza a evitare le notizie, causata da diversi fattori ma ci si muove spesso su un piano emotivo. Troppa negatività, senso di sopraffazione, ma anche contenuti ritenuti troppo presenti e allo stesso tempo lontani dai propri interessi. I numeri: resta un 36% di persone che ammette di “scansare” le notizie. Sono un po' più le donne (39%) rispetto agli uomini (33%). Per la prima volta quest’anno il Reuters Institute ha scavato non solo sulle motivazioni ma anche sul come. Come si fa a non informarsi, a evitare reportage, inchieste, ultime ore, interviste? Il 53% periodicamente spegne tutto. Esempio: si chiude la radio, si cambia canale, sito,  quando arriva la parte dedicata alle news, o sui social si passa oltre. C’è un secondo gruppo ancora più attivo nel “proteggersi”: disattivano le notifiche, controllano meno spesso eventuali aggiornamenti, evitano di guardare i siti di news prima di dormire o evitano proprio alcuni argomenti, tra questi soprattutto il conflitto in Ucraina e notizie di politica nazionale. 

 

I dati non sono uguali dappertutto. Rispetto alla media del 36% abbiamo per esempio un picco in Grecia e Bulgaria dove la percentuale è del 57%, cresciuta rispetto allo scorso anno. E ci sono livelli anche molto più bassi: in Giappone solo l’11% dichiara di evitare in qualche modo di informarsi. E c’è differenza anche rispetto al proprio orientamento politico. Chi vota a destra tende a evitare notizie che parlano di giustizia sociale (il 70%) e di cambiamento climatico (64%); chi vota a sinistra sembra più propenso a saltare notizie di intrattenimento e gossip (39%), tematiche legate alla criminalità e alla sicurezza (30%), economia e finanza (25%, rispetto agli elettori di destra che in questo caso le evitano solo nel 9% dei casi).

Ok, ma cosa si può fare? E cosa stanno facendo le testate di tutto il mondo? Ampliare le tematiche coperte, cercare notizie più stimolanti, positive, ma anche il cosiddetto “solution journalism”, gli approfondimenti che cercano anche soluzioni ai problemi. Anche su questo tema c’è un ulteriore approfondimento nel report di quest’anno. Chi “scansa” le notizie dice per esempio di essere poco interessato agli ultimi aggiornamenti anche se si tratta del fatto del giorno, e questo viene percepito anche solo dalla titolazione. Torniamo alle indicazioni lette in più pagine del report: informazioni chiare, che aiutino a capire cosa è vero e cosa no, contenuti originali, multi piattaforma capaci di accontentare chi preferisce video o audio. E una presenza sui social, capace di intercettare chi ha deciso che lì e solo lì c'è la propria personalissima fonte di informazione.

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