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Il Pulitzer Greer: "Le storie d'amore tra uomini, romantiche come quelle etero"

Cronaca

Ludovica Passeri

Al Salone del Libro di Torino abbiamo intervistato Andrew Sean Greer, Premio Pulitzer per la narrativa nel 2018 con il romanzo "Less" e oggi in libreria con il sequel "Less a zonzo". L'autore vive tra gli Stati Uniti e Milano. Ha scelto l'Italia per scrollarsi di dosso quello che definisce "il provincialismo degli americani". Con lui abbiamo parlato del presente della "gay narrative" 

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Nel 1982 veniva dato alle stampe negli Stati Uniti “A boy's own story” (nell'edizione italiana "Un ragazzo americano"), la storia di un quindicenne che nel midwest degli anni Cinquanta esplorava la propria omosessualità, sperimentando il senso di colpa e la solitudine. Il libro, un’autobiografia romanzata tragica ma non priva di ironia, divenne subito un "instant classic", una pietra miliare della "narrativa gay" americana. L'autore Edmund White, oggi ottantenne, continua ad avere una grande influenza su quelli che sono definiti scrittori "queer", come ne ha avuta nei trent’anni di insegnamento tra Princeton e la Brown. Non è un caso se fra i suoi studenti c’è stato un futuro Pulitzer Prize per la letteratura.

“White fu il primo a leggere il mio manoscritto. Mi disse che Less sarebbe diventato un bestseller”: ci racconta Andrew Sean Greer, che abbiamo incontrato a Torino. Ha presentato il sequel Less a zonzo, edito da La nave di Teseo, quattro anni dopo la vittoria del premio più ambito per gli autori d’oltreoceano. La profezia si è avverata: il libro ha venduto più di un milione di copie ed è considerato un capolavoro contemporaneo di comicità e umanità. Il protagonista è uno scrittore cinquantenne che è alle prese con una delusione d’amore e una carriera in bilico: il suo ex si sta per sposare e la sua intera esistenza sembra andare a rotoli. Anche nel secondo capitolo della saga il leitmotiv è la fuga dai problemi: la morte di un vecchio amante fa ripiombare Arthur Less, che ha apparentemente ripreso in mano la sua vita, in un baratro.

I romanzi di Greer sono un trattato di ironia applicata alle sventure della vita. Non abbandona mai il tono gioioso e spensierato che è la sua vera cifra stilistica. Per capire la sua opera bisogna fare i conti con chi è venuto prima di lui, una tradizione che però lo scrittore originario di Washington, che vive tra San Francisco e l’Italia, suo paese d’elezione, ha saputo rinnovare dal profondo. 

 

Ha ancora senso parlare di “gay narrative”?

Edmund White è stato il mio relatore all’università. Faccio senza dubbio parte di quella tradizione di cui è uno dei massimi esponenti. Siamo amici e ci chiediamo spesso cosa fare per portare alla letteratura americana qualcosa di nuovo. Quello che però ho notato è che ho tanti lettori in giro per il mondo e la maggior parte sono giovani e eterosessuali. Amano di questo libro il senso di gioia e liberazione che, non è legato al fatto di essere gay, deriva dal trovare la persona che si ama ed è qualcosa che colpisce i giovani lettori e in particolare le donne. Questo senso di libertà romantica fa parte dell’essere gay ma in realtà della vita di tutti.

Cosa c’è dietro l’ironia dei suoi libri?

La commedia nasce dalla tragedia. Nei miei libri racconto le cose più tristi e dure che mi sono successe e cerco di farle diventare divertenti. I miei romanzi sono segretamente politici: cerco di cambiare il punto di vista dei lettori affascinando, senza passare per i classici schemi di persuasione. Li porto a considerare altre possiblità, ad esempio che una storia d’amore tra due uomini che si amano sia tanto autentica, degna, letteraria e romantica quanto quella fra due etero. In questo senso i miei romanzi sono politici. E poi c’è un altro aspetto: nella nostra comunità LGBTQ+ essere più spiritosi degli altri è sempre stata una tattica per essere accettati e superare le difficoltà. L’essere divertenti è stata una necessità.


I lettori si sono affezionati al protagonista. Less è un eroe o un antieroe?

Apparentemente non fa niente di eroico. L'atto eroico è l'innocenza. Per lui è uno sforzo quotidiano. Ogni giorno si sveglia è può scegliere se metterla da parte o sceglierla ancora. A me il fatto che la scelga sempre sembra eroico.

 

L’Italia sta influenzando il suo modo di essere?

Questo è il mio secondo Paese. Il posto in cui ho vinto; ho perso; ho trovato l’amore; imparato una nuova lingua, mettendomi in discussione; mi sono sentito stupido e altre volte intelligente. Ero in Toscana quando ho ricevuto la notizia del Premio Pulitzer. Lì ho un’amica italiana di 97 anni che mi ha insegnato tutto su questo Paese. Qui ho alcune tra le persone a cui tengo di più.

 

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E la sua narrativa?

Sono cresciuto leggendo Calvino, Levi, Natalia Ginzburg. Mi piaceva il loro modo differente di raccontare storie e come scrittore ho il dovere di trovare altri punti di vista e di scrittura. È soltanto all’estero e in un’altra lingua che posso scoprire cose nuove. Io non voglio raccontare storie come la narrativa americana contemporanea perché non c'è niente di nuovo per me.

 

Da cosa nasce questa insofferenza?

Noi americani siamo molto provinciali, pensiamo solo all'America. Vivere fuori mi fa ridimensionare il posto da cui vengo: non è nulla. Ci sono altri modi di pensare, di essere, c'è un sacco di letteratura da scoprire che non è in inglese. Basta andare a Sanremo per rendersi conto che c’è un mondo di musica pop non anglofona. Ho cambiato il mio modo di pensare, imparato a essere più umile. L’Italia è il posto perfetto per scrivere i miei romanzi.  Vivere qui mi permette anche di essere un osservatore più distaccato e realistico dell’America. Riesco a prendere la giusta distanza per vedere le cose nella loro giusta prospettiva.



Che America vede dall’Italia?

Vedo un’America disperata, in crisi e in un certo senso sbiadita, ma allo stesso tempo piena di speranza. Il mio prossimo libro sarà ambientato in Italia, ma  parlerà della follia di essere americani e della speranza nel cambiamento.





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