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Salone del Libro, Cercas: “Fino adesso hanno vinto i nazionalismi anche in letteratura"

Cronaca

Ludovica Passeri

Tra gli ospiti internazionali del Salone del Libro di Torino lo scrittore spagnolo Javier Cercas, autore della trilogia di Terra Alta, di "Anatomia di un istante", "Soldati di Salamina", "L'impostore"

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Al Salone del Libro di Torino abbiamo incontrato Javier Cercas, uno dei più importanti scrittori spagnoli. Ha chiuso un cerchio con il “Il castello di Barbablù”, edito da Guanda, l’ultimo romanzo della serie incentrata sull’ex poliziotto e accanito lettore Melchor Marín, eroe imperfetto in balia degli eventi. Cercas non ama le categorie in letteratura, tanto è vero che arriva a sostenere che il “poliziesco non esista, come non esistono i gialli” e che “i libri si dividano in buoni e cattivi”. Quelli buoni, secondo Cercas, sono popolari e raggiungono un pubblico vasto. Per scrivere un’opera “rilevante” questa è la condizione da soddisfare.  A Torino, Cercas, editorialista de El País, che ha raccontato a fondo la Spagna sospesa tra franchismo e democrazia, è chiamato in causa soprattutto per riflettere sul ruolo degli intellettuali nel 2023.

 

“Riscrivere il ruolo degli intellettuali” è il titolo di un libro che ha scritto a due mani e di uno degli appuntamenti del Salone del Libro di cui è protagonista. Si tratta di una provocazione?

Mi piace questa definizione, in un certo senso sì, è una provocazione. Gli intellettuali sono una cosa moderna e al tempo stesso démodé. L’aggettivo "intellettuale" è antico, ma il sostantivo è recente: non ha più di un secolo. Il prestigio è già venuto meno, ma che cos’è alla fine un intellettuale? Una persona che ha un certo riconoscimento per il suo lavoro e che non si limita ad essere brava nel proprio campo. Si è intellettuali quando si partecipa alla vita pubblica. Io sono un romanziere ma anche un cittadino che esprime la propria opinione. Parlo di politica, che viene dalla parola “città” e la città è di tutti. La politica è troppo importante per essere lasciata in mano ai politici.

 

 

Qual è la differenza con il passato?

Ognuno di noi può essere intellettuale perché al giorno d’oggi abbiamo la possibilità di partecipare massicciamente al dibattito pubblico. Il digitale offre a tutti questa chance. L’intellettuale non è qualcuno che sa tutto, come un profeta. È finito il tempo del “vate”. Esistono i cittadini. Da qui bisogna partire.

 

Partecipando a occasioni, come quella rappresentata dal Salone del Libro di Torino, si è fatto un'idea sulla direzione in cui va la letteratura europea?

Io sono un cittadino e romanziere europeo. Questo significa che mi sento un po’ italiano, un po’ francese e così via. Dalla letteratura può prendere ispirazione il progetto dell’Unione europea. La letteratura del Vecchio Continente non è mai stata una letteratura nazionale: i nazionalismi nella letteratura sono un fenomeno recente. È sempre stata per costituzione una letteratura meticcia, articolata e arricchita da influenze diverse.

 

Concretamente cosa ha significato?

Il romanzo nasce con Cervantes, ma poi viene sviluppato dagli inglesi, e dopo ancora dai francesi che aggiungono ulteriori pezzi. Negli ultimi due secoli il nazionalismo si è imposto come visione del mondo, costruendo artificialmente letterature nazionali, scrittori nazionali. Tutto questo è fuori dalla realtà storica. Cervantes non è uno scrittore spagnolo: ha scritto in spagnolo ma ha influito dappertutto. Petrarca non appartiene all’Italia: è stato fondamentale per la letteratura spagnola.

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Quali sono le conseguenze del nazionalismo nella nostra letteratura contemporanea?

Non esiste un sistema letterario europeo e bisognerebbe costruirlo: per adesso ognuno fa per sé. Non esiste un dibattito letterario europeo, non esistono delle riviste e delle case editrici, mezzi di comunicazioni. Non esistono in un certo senso neanche gli scrittori europei, ovvero scrittori rilevanti dappertutto. Erri De Luca non è letto diffusamente fuori dall’Italia, anche se avrebbe tutte le carte in regola.

 

A proposito di nazionalismo, nel suo Paese alcuni gruppi hanno manifestato contro la Legge di Memoria democratica che ha portato nel 2019 a riesumare e traslare la salma di Francisco Franco e, lo scorso aprile, a fare lo stesso con Primo de Rivera. Cosa c’è dietro questa decisione politica?

I simboli sono importanti. Il problema non è perché è stato fatto, ma perché Franco fosse ancora lì. Solo una minoranza non lo capisce. Franco era sepolto in un mausoleo fascista. Il punto sarà capire cosa fare con questo monumento. Forse “risignificarlo: il passato non si deve distruggere, ma gli si deve dare nuovo significato. Si dovrà spiegare cosa c’era lì.

 

In molti suoi romanzi, come “Anatomia di un istante” che narra il tentativo di colpo di Stato dell’81 o come “L’Impostore”, la storia di un uomo che si è finto eroe antifranchista, fa i conti con la storia di Spagna. Quanto pesano le memorie divise?
Quand’ero giovane pensavo che solo il mio Paese avesse problemi con il passato. Oggi che sono vecchio, so che questo non è vero. Tutti i Paesi hanno problemi con il passato. La Spagna però deve fare i conti con un passato dittatoriale più recente. In Italia nel ’45 si era già arrivati alla democrazia. In Spagna la guerra non è finita nel ’39, ma è durata 43 anni. Il franchismo ha rappresentato il prolungamento della guerra attraverso altri mezzi.  In comune abbiamo storie di sangue, di guerre, di dittature.

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