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Rogo ThyssenKrupp, 15 anni fa la strage a Torino: dall'incidente al processo. FOTO

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06 dic 2022 - 12:36 13 foto
©Ansa

Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 scoppiava un incendio in un capannone dell'impianto siderurgico torinese. Sette operai persero la vita entro 24 giorni. Anni dopo, nonostante le condanne della magistratura italiana, non tutti gli imputati giudicati colpevoli - tra cui l'allora amministratore delegato Harald Hespenhahn - hanno scontato la loro pena

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Quindici anni fa, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, nell’acciaieria ThyssenKrupp di Torino scoppia un incendio. Sette operai, di età compresa fra i 26 e i 54 anni, muoiono nel giro di 24 giorni. Tutto inizia pochi minuti dopo l’una di notte, nel capannone della Linea 5, dove lavorano gli addetti alla ricottura e al decapaggio. Solo uno di loro, Antonio Boccuzzi, sopravvive alle fiamme: una colata di olio bollente prende fuoco e investe tutto il capannone

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Vengono subito chiamati i Vigili del Fuoco: a nulla servono i tentativi degli operai di placare l’incendio con gli estintori. È stato un irregolare scorrimento del nastro della Linea 5 la miccia che ha causato la tragedia. La carta imbevuta di olio, usata per proteggere il nastro di acciaio, era rimasta incastrata nella macchina, insieme a sporcizia e segatura. Le scintille causate dall’attrito della macchina malfunzionante hanno innescato la reazione a catena 

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Le fiamme danneggiano un tubo dell’impianto idraulico, da cui esce altro olio che a sua volta si incendia. Si crea una nube di fiamme che investe tutti. Intorno alle 4 di mattina si conta la prima vittima, Antonio Schiavone, arrivato da poco in ospedale. Dal 7 al 30 dicembre, in seguito alle ustioni riportate, muoiono anche Bruno Santino, Rocco Marzo, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Rosario Rodinò e Roberto Scola

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Inizia una lunga vicenda giudiziaria, per alcuni versi ancora aperta. ThyssenKrupp era, ed è tuttora, una delle più grandi aziende europee nel settore dell’acciaio. Tedesca, aveva diverse società sotto il suo controllo. Tra queste la Acciai Terni e il suo stabilimento torinese. Subito si punta il dito contro i vertici di ThyssenKrupp. Centrali le memorie e le testimonianze di Boccuzzi, da 13 anni operaio nell’acciaieria e sindacalista iscritto alla UILM

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Si denunciano le condizioni di lavoro – alcuni addetti erano in turno da 12 ore – e la mancanza di misure di sicurezza adeguate a un impianto così delicato. Gli estintori non funzionavano a dovere e gli idranti nemmeno, dice Boccuzzi già il giorno dopo il rogo. ThyssenKrupp aveva deciso di dismettere la sede torinese e per questo, sottolinea sempre l’unico superstite, gli investimenti in sicurezza mancavano da un po’ di tempo

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Subito, dai vertici aziendali arriva la smentita. Anzi: sulle pagine de La Stampa spunta un documento, ottenuto dalla Guardia di Finanza di Torino, in cui l’amministratore delegato Harald Espenhahn (in foto) dice che Boccuzzi va fermato per “vie legali”. Parla troppo ai media italiani. La colpa dell’incendio, più che della mancanza di misure di sicurezza, è degli operai morti che si erano “distratti”, o comunque di “errori” legati a “circostanze sfavorevoli”

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Espenhahn critica anche la magistratura torinese, troppo schierata dal lato dei lavoratori per indagare con obiettività. Il caso delle morti sul lavoro alla ThyssenKrupp è uno dei più grandi di sempre in Italia e le indagini corrono spedite. In poco tempo vengono formulati i capi d’accusa. A Espenhahn si contesta il reato di omicidio volontario e di incendio doloso, entrambi con dolo eventuale. Cinque dirigenti si devono difendere per omicidio e incendio colposo, aggravati dalla previsione dell’evento 

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Si formula un’imputazione anche per omissione dolosa di sistemi di prevenzione. L’azienda viene rinviata a giudizio in quanto persona giuridica. In pratica, secondo l’accusa, tutti sapevano che, non mettendo in campo specifiche misure per evitare incidenti, gli operai sarebbero potuti morire. L’aula del processo apre nell’inverno 2009. Alcuni operai dicono che soltanto per le visite della ASL la fabbrica veniva pulita. Nel 2011 la Corte d’assise torinese condanna Espenhahn a 16 anni e 6 mesi di reclusione, confermando tutti i capi d’accusa

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Anche gli altri dirigenti vengono condannati, con pene comprese tra i 13 anni e mezzo e i 10 anni e 10 mesi di reclusione. Si passa all’appello. I giudici del secondo grado di giudizio – è il 2013 – riqualificano il reato compiuto da Espenhahn: non omicidio doloso, ma colposo. Diminuita quindi la pena, che arriva a 10 anni. Si abbassano i tempi di reclusione anche per gli altri manager

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Nel 2014 il caso è in Cassazione, che rimanda indietro gli atti alla Corte d’Appello, pur riconoscendo le colpe di tutti gli imputati. Espenhahn viene condannato a 9 anni e 8 mesi, gli altri a una pena che va dai 7 anni e mezzi ai 6 anni e 3 mesi. Nel 2016 la Cassazione riconferma tutte le condanne pronunciate in appello

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È andata su un altro binario la questione del risarcimento ai famigliari delle vittime. Mentre lo stabilimento chiudeva per sempre, nel 2008, ThyssenKrupp versava alle famiglie poco meno di 13 milioni di euro, a patto che loro non si costituissero come parte civile nel processo penale

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Nel 2019 le famiglie degli operai morti, insieme a Boccuzzi, chiedono ai giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo di intervenire. I colpevoli, pur condannati in via definitiva, non hanno mai scontato la pena decisa dalla magistratura italiana. Si citano in giudizio i governi italiani e tedeschi per averlo permesso

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Non tutti sono poi entrati in carcere. Una causa parallela va avanti davanti alla Corte costituzionale federale tedesca, davanti ai cui giudici Espenhahn ha lamentato la violazione del "principio del giusto processo e del diritto al contraddittorio". Durante il processo italiano mancava la traduzione in tedesco di alcuni documenti. Per il manager, inoltre, "la condanna non ha fornito prove di una concreta negligenza individuale". La pena, in attesa di una decisione, è sospesa. Dopo 15 anni, la richiesta di giustizia dei famigliari delle vittime attende ancora

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