Gli inizi alla Bnl, la nascita dell’Espresso, l’esperienza in Parlamento, la fondazione del quotidiano: chi era il giornalista scomparso a 98 anni e considerato uno dei maestri di questa professione
Per avere un’idea di chi sia stato Eugenio Scalfari si potrebbe partire da una lettera. Più di preciso, da una circolare datata 21 gennaio 1978, due anni dopo la nascita del quotidiano. Scalfari è già “il Fondatore”: ha alle spalle l’epopea dell’“Espresso”, con alcune inchieste che resteranno nella storia, ed è ormai considerato da una parte d'Italia una specie di oracolo vivente. In quel giorno d’inverno di più di quarant’anni fa, si chiude nel suo ufficio e scrive una dettagliata paginetta.
Il tema? I bagni dell’edificio che ospita il neonato quotidiano. Sono, scrive, “in condizioni tali da rendere un obiettivo invidiabile il gabinetto della più turpe caserma di provincia”. Segue dettagliata descrizione: “Asciugamani ridotti a stracci per pavimenti, scarichi intasati, tracce di ogni genere specialmente negli impianti igienici” eccetera, eccetera, eccetera. Prima dell’accorato appello affinché “a Repubblica anche i gabinetti abbiano un volto umano”. Ecco: l’episodio, raccontato anni dopo da Giampaolo Pansa nella “Repubblica di Barbapapà”, rende forse meglio di molti altri chi sia stato Eugenio Scalfari, uno che – ricorda sempre Pansa – conosceva come pochi l’arte di gestire le persone.
Gli esordi e la nascita dell’Espresso
Nato a Civitavecchia nel 1924, compagno di banco a Sanremo di Italo Calvino, Scalfari fa il suo debutto sulle gazzette agli inizi degli anni Quaranta. Nel ’50 arriva a Milano, destinazione l’ufficio estero della Banca Nazionale del Lavoro, dove è stato assunto poco prima. In tasca, racconterà lui stesso in “La sera andavamo in via Veneto”, ha due lettere di segnalazione firmate da un mostro sacro del giornalismo italiano, il fondatore del “Mondo” Mario Pannunzio. Una delle due è indirizzata ad Arrigo Benedetti. Scalfari lo affiancherà nel 1955 nella fondazione dell’“Espresso” come responsabile amministrativo e redattore per l’economia, prima di diventare nel ’63 direttore del settimanale. Tornato a Roma, poco dopo consumerà una traumatica rottura epistolare e umana proprio con Benedetti (ormai solo firma e padre nobile del settimanale): “Il direttore - gli scriverà - fissa la linea del giornale e ne cura la compilazione in tutti i suoi dettagli, i redattori e i collaboratori adempiono ai compiti loro affidati. Non hanno nessuna voce sulla linea politica del giornale. Se non gli piace, si dimettono. Se restano, obbediscono”.
Le inchieste e l'esperienza parlamentare
“L’Espresso” è una macchina oliatissima, le vendite sono alle stelle. Scalfari non è un giornalista lieve, la sua scrittura è distante anni luce dalla prosa vigorosa di Bocca e da quella limpida di Montanelli. Ma è un direttore nato. Pubblica alcune inchieste memorabili, ma scivola pure in diversi infortuni. Il suo “Espresso” intanto ha già pubblicato l’inchiesta più importante. È Scalfari a firmarla, a quattro mani con Lino Jannuzzi. Racconta il tentativo di colpo di stato rimasto alle cronache come “Piano Solo”. I due tirano in ballo il comandante dell’Arma Giovanni De Lorenzo, che li querela. E, complice il segreto di stato, scattano le condanne: 15 e 14 mesi. Per evitare l'esecuzione della pena, Scalfari - come Jannuzzi - accetta il paracadute parlamentare: nel ’68 viene così eletto nelle file socialiste (era già stato consigliere comunale a Milano). Con lui, nello stesso gruppo, fa il debutto un trentaquattrenne milanese con cui sarà presto ai ferri corti. Si chiama Bettino Craxi. Sul giornalista dirà: “Un geniaccio, con un carattere fragile, instabile… Se avesse alternato i colloqui coi finanzieri a qualche incontro con gli operai, be’, direi che non gli avrebbe fatto male”.
Il giornale? "Come un partito"
L’esperienza da onorevole non gli piace: “A Montecitorio – ricorderà anni dopo – mi annoiai mortalmente”. La giostra parlamentare dura così solo un giro, fino al 1972. Quella politica, no. Scalfari è ormai un’autorità. “Di lui non ho un’opinione precisa – confesserà nei suoi diari privati di quegli anni Indro Montanelli – So che ha fatto parecchi soldi. La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa, o vuole fuggire da qualcosa?”. Scalfari, dal canto suo, ha un’idea chiara: imporre la sua idea. Per farlo, non ha bisogno di uno scranno, ma di un giornale. “Repubblica” nasce da qui, e sarà lui stesso a confessarlo, ricordando spesso come “il peso del giornale equivale a quello d’un partito importante, sia pure molto sui generis”.
Repubblica, il Corriere e lo scandalo P2
Il primo numero del nuovo quotidiano arriva in edicola il 14 gennaio 1976. Sulla sua fondazione si è scritto e detto di tutto. Idem sul suo stentato avvio (nell’agosto di quell’anno vende appena 70mila copie) fino al cambio di linea e all’esplosione dell’inchiesta P2 che travolge il suo diretto concorrente, il “Corriere della Sera”. “Repubblica” in pochi mesi quadruplica le vendite, ospitando nelle sue pagine alcune delle prime firme del giornale di via Solferino, a cominciare da Enzo Biagi e Alberto Ronchey.
Il rapporto con De Mita
In politica, per il “Fondatore”, gli anni Ottanta sono quelli di un grande amore, Ciriaco De Mita. Una passione – racconterà Pansa – che si fonderà “sulla convinzione, o l’illusione, che fosse l’unico leader democristiano in grado di rinnovare le polverose istituzioni italiane e di rendere il nostro Paese uguale alla Svizzera”. Ma che probabilmente, come spiegherà Carlo De Benedetti, ha anche profonde radici psicologiche: “Credo che Eugenio fosse lusingato dall’idea di poter influenzare politicamente il capo della Dc. Mentre a De Mita piaceva dimostrare ai suoi amici-nemici della Dc di avere una stretta relazione con un giornale laico e liberal come ‘Repubblica’”.
De Benedetti e la guerra di Segrate
A proposito di De Benedetti: è in quel torno di anni che l'imprenditore entra nel capitale sociale del quotidiano, prima di comprare, alla fine degli Ottanta, l’intero pacchetto azionario da Carlo Caracciolo e dallo stesso Scalfari. La cifra resterà un mistero. “Repubblica” e l’intero gruppo dell’“Espresso” entrano così in Mondadori, di cui De Benedetti punta a diventare azionista di riferimento. Non andrà così. A sbarrargli la strada c’è Silvio Berlusconi, che la spunta. È l’avvio di un lungo contenzioso che, complice la mediazione politica di Giuseppe Ciarrapico (e, per suo tramite, di Giulio Andreotti), si concluderà due anni dopo con la spartizione dell’impero editoriale: i libri e i periodici resteranno alla Fininvest; “Repubblica”, “l’Espresso” e i quotidiani locali andranno a De Benedetti.
I libri e il passaggio di consegne con Mauro
Il resto è storia recente. Nel 1996 Scalfari passerà le redini del quotidiano ad Ezio Mauro. Continuerà a scrivere editoriali, interviste, commenti, anche dopo il passaggio di proprietà del giornale al gruppo Exor. E soprattutto scriverà libri: romanzi, ricordi, saggi, alcuni dei quali con titoli che si presteranno a una facile ironia (proverbiale, in tal senso, “L’incontro con io”).
Nonostante la consacrazione nei Meridiani Mondadori, molti di questi non resisteranno agli anni, anche se non intaccheranno il ritratto di un ambizioso e geniale direttore.