La città senza turisti, i commercianti in crisi e le tradizioni siciliane che rischiano di scomparire travolte dall'emergenza virus. Ma quella di vivere in comunità si è solo trasformata e oggi unisce vecchie e nuove generazioni, studenti e abitanti dei quartieri catanesi
Il tricolore è sempre stato sinonimo di unità. Unione eterogenea di un Paese sfaccettato. In dialetti diversi, in epoche artistiche differenti, in un concetto di bellezza che cambia di vicolo in vicolo, museo, monumento, piazza. Il barocco e la scultura romana si stratificano e mescolano alla perfezione così come gli odori di cucine diverse. Oggi che ogni confine è ridiventato frontiera, il tricolore ha preso il significato di differenza e divisione. Soprattutto, di paure. Che cambiano di regione in regione, di casa in casa, di famiglia in famiglia, di persona in persona. Tutto si è fermato di nuovo, a colori diversi e con tempi diversi. Però quella bellezza, anche se magari si è trasformata, esiste. Come una cartolina con nuove figure.
Catania è cambiata. I suoi colori sono sempre gli stessi, le urla del mercato del pesce anche. Ma non c’è nessuno che scatta fotografie alla fontana dell’elefante, ai banchi dei pescatori o ai tipici chioschi che vendono tamarindo. È una Catania senza turisti e non solo l’economia ne sta risentendo, ma anche l’umore dei suoi cittadini. Si vive nell’attesa di un passato che non si sa quando e se ritornerà. Ma proprio su quelle tradizioni che hanno paura di scomparire per sempre si stanno innestando nuove realtà.
La tradizione dei mercati rionali in crisi
Salvo ogni tanto aiuta lo zio che gestisce uno dei banchi della Fera ‘o Luni, per i catanesi semplicemente “la fiera”. Un mercato rionale in cui si trova di tutto, che ultimamente è più vuoto ma di sabato si riempie di tutte le persone che arrivano dai paesi limitrofi. Spostamenti che sulla carta non sarebbero consentiti, secondo il dpcm del 3 novembre che inquadra la Sicilia come zona arancione. Un flusso che comunque non basta a sopperire alla mancanza di quello turistico. Il mercato di piazza Carlo Alberto può rimanere attivo perché è all’aperto: dopo uno stop dovuto alla non piena comprensione della norma al riguardo inserita nel decreto, la fiera ha ripreso e i commercianti si sono organizzati per pagare degli operatori che girino e controllino il rispetto dell’obbligo di mascherine. Nel mercato più antico della città tutti hanno metà del volto coperto ma non ci si fa caso perché si è comunque catturati dai colori della merce esposta e dai proprietari che elencano le qualità dei propri prodotti. Il rischio però è che, con la crisi economica, molti di loro potrebbero essere costretti a chiudere, e con loro si abbasserebbe il sipario anche su una parte della tradizione catanese.
Pesce invenduto
Tra i commercianti ci sono anche molti rivenditori di pesce, quello che prima si mangiava al ristorante, in vacanza, in riva al mare. Anche questo mercato è crollato, perché, come spiega Maurizio, "non tutti comprano il pesce per cucinarlo a casa, neanche in Sicilia". E quindi, molto pescato rimane invenduto.
L'ospitalità siciliana è sempre la stessa
Oltre al mare e alla cucina, c’è una tradizione, quella dell’ospitalità siciliana, che è radicata nei catanesi stessi. Si parla con il vicino di casa, come con il passante, in una visione dei rapporti umani che sa di paese e di anni Sessanta. Le persone stanno affacciate alla finestra o chiacchierano sedute in strada e ancora invitano gli “sconosciuti” a pranzo. E questa è la tradizione su cui si stanno innestando realtà nuove e giovani, al di là della pandemia e accelerate con il suo arrivo.
"A 25 anni migro da nord a sud"
Paola ha 25 anni, è nata a Torino e ha deciso di trasferirsi a Catania. È una storia strana la sua, almeno per quell’Italia che vede il Sud solo come un bel posto dove andare in vacanza: i residenti, soprattutto i giovani, devono fuggire appena possono. E invece forse proprio la pandemia sta insegnando il contrario. Paola è arrivata a Catania due mesi fa: prima viveva ad Amsterdam, dove aveva scelto di frequentare il corso di laurea magistrale. È partita per la Sicilia per svolgere la ricerca della sua tesi e ha deciso di restare. "Quando sono arrivata una signora del quartiere mi ha fermato per strada per chiedermi chi fossi e qualche giorno dopo mi ha invitato a pranzo perché voleva farmi assaggiare la sua pasta alla ricotta e i gamberetti fritti", racconta Paola, "questo a Torino o all’estero non sarebbe mai accaduto". "Si dovrebbe migrare al Sud per rimparare la tradizione dei rapporti umani, proprio quelli che ci siamo tutti abituati a dare per scontato - afferma - qui se qualcuno è economicamente in difficoltà chi ha qualcosa in più in quartiere fa la spesa anche per lui". È talmente normalizzata l’idea di vivere in comunità che è impossibile fare a meno dei contatti sociali e, forse per questo, spesso si vedono persone in giro anche oltre l’orario consentito dalle misure anticontagio.
Dentro lo studentato autogestito
Paola è andata a vivere dentro allo studentato 95100, una struttura completamente autogestita dagli studenti del polo universitario. Un luogo che un po’ ricorda il clima de Le fate ignoranti di Ozpetek: una grande terrazza soleggiata dove si pranza tutti insieme e si discute di grandi progetti.
Un consultorio nel mezzo della pandemia
Due di questi, alcuni dei ragazzi che abitano nello studentato li hanno portati avanti proprio nel mezzo della pandemia. Benedetta, insieme ad altre ragazze e donne, ha aperto proprio nello stesso edificio dello studentato un consultorio autogestito, ristrutturando tramite una raccolta fondi degli spazi che erano dismessi da più di trent’anni. "Abbiamo aperto proprio poco prima che scoppiasse l’emergenza virus - racconta - ci siamo abituate a svegliarci ogni settimana pronte a reinventare il nostro lavoro per poter fare quello per cui abbiamo fondato questo posto".
Si fa rete dentro ai quartieri
Alcuni dei primi “abitanti” dello studentato, Simone e Fabrizio, due anni fa hanno fondato l’associazione “Trinacria”, come il simbolo della Sicilia della testa femminile a tre gambe. Un gruppo che si è inserito a Picanello, un quartiere nella periferia nord-orientale della città abbandonato a se stesso e alle sue regole, almeno dalle istituzioni. "La disgrazia della pandemia ci ha permesso di avvicinarsi alle persone del quartiere: molti si sono trovati in grave difficoltà e l’idea di attivare un banco alimentare è diventato uno stimolo e un modo di creare una solidarietà nuova con chi abita qui". Teresa per esempio, durante il lockdown riceveva insieme alle altre famiglie il pacco alimentare grazie ai ragazzi e ora anche lei partecipa come volontaria a “Trinacria”.
La domenica a Catania sembra di tornare indietro nel tempo: la mattina si passeggia e si va a comprare i dolci per il pranzo. I cannoli ci sono sempre, la famosa granita con brioche è più rara ora che i turisti sono spariti dalla città. Poi, alle 13, tutto si svuota. Come in una domenica di paese, si pranza tutti insieme e non si esce prima del tardo pomeriggio, spesso con la scusa della messa. Ora, con l'emergenza covid, molte serrande restano abbassate anche il resto del tempo. Ma alcune, come quelle del consultorio o di Trinacria, si sono alzate e restano aperte sempre.
Queste sono le cartoline da una città che, a modo suo, si sta creando una nuova normalità.
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