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Coronavirus ad Alzano Lombardo e Nembro, storia del focolaio bergamasco

Cronaca

Nadia Cavalleri

Il virus avrebbe cominciato a propagarsi in provincia di Bergamo nella prima metà di febbraio, anche tra le corsie degli ospedali. Sulla mancata zona rossa i pm sentono il premier Conte, dopo aver ascoltato l'assessore Gallera e il governatore Fontana

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La storia del contagio da Coronavirus (GLI ULTIMI AGGIORNAMENTI: LIVE - LO SPECIALE) ad Alzano Lombardo inizia verosimilmente, stando a quanto ricostruito a posteriori, il 12 febbraio scorso. Al terzo piano dell’Ospedale Pesenti Fenaroli, nel reparto di medicina interna, è ricoverata una signora con la diagnosi di scompenso cardiaco. Subentrano problemi respiratori. Nel giro di una decina di giorni la situazione precipita e la signora muore. Attorno a lei quel giorno, stando ai racconti, ci sono medici e infermieri con le mascherine. I funerali si tengono in forma privata a Villa di Serio dopo la camera ardente dove hanno fatto visita centinaia di persone. Il marito della donna, con quella che si pensava fosse un’influenza, morirà il 13 marzo per via del coronavirus al Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

L'ospedale di Alzano Lombardo chiuso e riaperto dopo poche ore

 

Torniamo però a febbraio; il giorno dopo la morte della signora, domenica 23 febbraio, l’ospedale viene chiuso attorno all’ora di pranzo. Viene transennato e nessuno può accedervi. Due pazienti sono risultati positivi al tampone. Fra loro c’è Ernesto Ravelli, il primo malato bergamasco deceduto ufficialmente per il Covid 19. Si trovava ricoverato anche lui nel reparto di medicina interna. Lo stesso giorno, il 23 febbraio, l’ospedale riapre dopo poche ore di chiusura. Stando ad alcune testimonianze raccolte fra il personale non ci sarebbe stato nessun intervento straordinario di sanificazione e soprattutto sarebbe mancata la creazione di un triage differenziato con l’accesso al pronto soccorso separato per chi mostrasse sintomi coronavirus compatibili. Il giorno dopo, di lunedì, le attività ordinarie dell’ospedale sono riprese normalmente dall’ambulatorio prelievi agli interventi in sala operatoria. Le vite di chi era potenzialmente entrato in contatto con il virus sono continuate come se niente fosse, come ha raccontato il figlio della signora deceduta la notte fra il 21 e il 22 Febbraio: “Nessuno ci ha detto di metterci in autoisolamento e non siamo stati convocati per il tampone”.

 

La direttiva alla direzione sanitaria a quanto emerge sarebbe stata della Regione Lombardia che, dopo cinque ore di stop totale dell’attività, tra le 15 e le 20 di quella domenica, aveva chiesto una riapertura graduale del presidio ospedaliero. Un trattamento piuttosto diverso da quello toccato ad esempio all’ospedale di Codogno, chiuso completamente e riaperto solo dopo una importante bonifica. Negli ospedali di Bergamo (Piario, Lovere, Seriate) in quei giorni il virus inizia a diffondersi fra le corsie, entrano ed escono dai pronto soccorso persone asintomatiche che si recano nei reparti, che non sono stati resi impermeabili al virus. Fra gli operatori sanitari, medici e infermieri che pagheranno un grande tributo, ce ne sono diversi già malati che continuano a prestare servizio. Intanto i presidi di protezione scarseggiano, non si trovano e solo grazie allo sforzo di alcune direzioni almeno al pronto soccorso arrivano mascherine Ffp2 e Ffp3.

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La mancata zona rossa

Il caso scoppia il 23 febbraio, lo stesso giorno del primo decreto legge del Consiglio dei ministri mentre il lockdown completo della Lombardia scatta l’8 marzo. Nei giorni di mezzo c’è chi ha chiesto la creazione di una zona rossa lungo l’asse Albino-Nembro-Alzano Lombardo, individuato da subito come focolaio bergamasco, ma la cintura di protezione non è mai stata creata. La Regione ha sostenuto di averla chiesta al governo. Ora il premier Conte sarà sentito dal pm titolare dell’inchiesta bergamasca che vuole fare chiarezza. I fatti, per ora, raccontano che il governo ha deciso di istituire una zona arancione a partire dall’11 marzo in tutto il Paese.

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