Trattativa Stato-mafia, chiuse le indagini. Dodici indagati

Cronaca
Il luogo dell'attentato di Capaci in cui ha perso la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta il 23 maggio 1992. ANSA

Boss di Cosa nostra, ufficiali dell'Arma ed esponenti dei vertici delle istituzioni avrebbero agito "in esecuzione di un medesimo disegno criminoso". I pm: Dell'Utri riferì a Berlusconi le richieste della criminalità organizzata

Alti ufficiali dell'Arma, storici boss di Cosa nostra ed esponenti di vertici delle istituzioni: sarebbero i protagonisti della presunta trattativa che, a partire dagli inizi del '92, pezzi dello Stato portarono avanti con la mafia.
Nell'atto con cui giovedì 14 giugno (dopo 4 anni) la procura di Palermo ha chiuso le indagini, si ricostruisce un pezzo della storia italiana che va dagli anni della strategia stragista, cominciata con l'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima al periodo delle bombe del '93 e all'inizio dell'era Berlusconi.
Un atto di accusa in nove pagine con dodici indagati. Tra questi ce ne sono due che non avrebbero materialmente partecipato alla trattativa. Si tratta di Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza ai pm, e di Massimo Ciancimino, che risponde di concorso in associazione mafiosa e di calunnia aggravata nei confronti dell'ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro. L’avviso di chiusura delle indagini, che normalmente precede la richiesta di rinvio a giudizio, non è stato firmato dal procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, che non è formalmente titolare del procedimento, e dal sostituto Paolo Guido, in disaccordo con la linea portata avanti dall'aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava.

Dodici indagati - In cima alla lista degli indagati cinque mafiosi: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonio Cinà, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Poi uomini delle istituzioni e politici: l'ex generale Antonio Subranni, l'ex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, l'ex generale del Ros Mario Mori, l'ex ministro Calogero Mannino e il senatore Marcello dell'Utri.
Le accuse sono violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. "Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato - si legge nell'atto d'accusa -. Hanno agito in concorso con l'allora capo della Polizia Parisi e il vice direttore del Dap Di Maggio, deceduti".
Nell'indagine sono finiti anche l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, l'ex capo del Dap Adalberto Capriotti e l'europarlamentare dell'Udc Giuseppe Gargani: per loro l'accusa è di false informazioni al pubblico ministero. Ma la legge prevede che l'inchiesta, in questo caso, sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo principale, quello, appunto, sulla trattativa; l'avviso di chiusura indagine, dunque, ai tre indagati non è stato notificato.

Dell’Utri mediatore - Tra le novità il ruolo attribuito a Dell'Utri, che avrebbe fatto da mediatore – così sostiene la Procura di Palermo - con Silvio Berlusconi, pure lui oggetto del ricatto, nella qualità di presidente del Consiglio appena nominato, nel 1994.
Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, attraverso Vittorio Mangano, l'ex stalliere di Arcore, e di Marcello Dell'Utri, avrebbero prospettato al neo premier "una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura, tra l'altro concernenti la legislazione processuale e penale, in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l'esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione".
"Non voglio commentare - dice Dell'Utri - . Gli inglesi dicono 'no comment'. Mi viene da ridere. I commenti facciamoli fare ad altri".

Un "disegno criminoso" - I pubblici ufficiali, secondo quanto si legge nell'avviso di chiusura indagini, avrebbero "agito con abuso di potere e con violazione dei doveri inerenti la loro pubblica funzione", anche "con altri soggetti allo stato ignoti, per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano, ed in particolare del Governo". I mafiosi, per indurli a tali violazioni, avrebbero "usato minaccia a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l'attività".
La minaccia sarebbe "consistita nel prospettare l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti, alcuni dei quali commessi e realizzati, ai danni di esponenti politici e delle istituzioni". Il primo delitto sarebbe stato quello che vide come vittima Salvo Lima: un'autonoma contestazione viene mossa, nell'avviso di conclusione delle indagini, riguardo all'omicidio del 12 marzo 1992, a Bernardo Provenzano. Dopo Lima ci fu l'omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, vicino a Calogero Mannino. Poi la strage di Capaci. E a quel punto si sarebbe messo in moto il "dialogo", in cui la figura centrale sarebbe stata don Vito Ciancimino: ai boss interessava avere una legislazione favorevole, un trattamento carcerario di comodo, processi che si concludessero in modo ben diverso dal "maxi", in cui la Cassazione aveva pronunciato condanne pesantissime, il 30 gennaio del '92.
Secondo la Procura "l'ottenimento di tali benefici" sarebbe stato posto "come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco alle istituzioni, la cui esecuzione aveva avuto inizio con l'omicidio dell'onorevole Lima".

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