L’industria di carne e latticini inquina più dell’Arabia Saudita

Tra il 2022 e il 2023, le 45 principali aziende della carne e dei latticini hanno emesso complessivamente circa un miliardo di tonnellate di gas serra: se fossero uno Stato, sarebbero la nona “nazione” più inquinante del pianeta, con emissioni superiori a quelle dell’Arabia Saudita. Le emissioni di metano, invece, superano quelle dichiarate da tutti i Paesi dell’Unione europea e il Regno Unito messi insieme. Questi sono alcuni dei dati raccolti nel report “Roasting the Planet: Big Meat and Dairy’s Big Emissions” redatto da Foodrise, Friends of the Earth U.S., Greenpeace Nordic e dall’Institute for Agriculture and Trade Policy. Lo studio individua anche una forte concentrazione delle responsabilità: le prime cinque aziende per emissioni da sole arrivano a 496 milioni di tonnellate di CO2, quasi la metà del totale analizzato più e di quanto emesso da colossi petroliferi come Chevron, Shell o BP. Se non visualizzi il grafico, clicca qui JBS, in particolare, rappresenta da sola circa il 24% delle emissioni complessive del campione e, secondo stime precedenti di Greenpeace Nordic, emetterebbe più metano di ExxonMobil e Shell messe insieme. Tra il 12 e il 19% delle emissioni globali Per stimare l’impatto climatico del settore, il rapporto ha analizzato le emissioni di 45 grandi aziende della carne e dei latticini. Le stime si basano sui dati più aggiornati del modello GLEAM 3.0 , uno strumento sviluppato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura per simulare l’impatto della produzione zootecnica sull'ambiente e su informazioni pubbliche relative ai volumi di produzione e trasformazione. Gli autori chiariscono però che si tratta di stime prudenti: la mancanza di dati completi e omogenei, l’uso di medie regionali e il fatto che GLEAM 3.0 restituisca valori più bassi rispetto a gran parte della letteratura scientifica rendono probabile una sottostima delle emissioni reali. A complicare il quadro c’è la trasparenza limitata delle aziende: molte non rendicontano le emissioni di Scope 3 oppure privilegiano indicatori di intensità, compensazioni e promesse tecnologiche future. Anche quando i dati vengono pubblicati, spesso risultano significativamente inferiori alle stime indipendenti. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Pur con tutte queste limitazioni, secondo il report il settore zootecnico è responsabile tra il 12% e il 19% delle emissioni globali di gas serra generati dall’essere umano. Esiste, però, una differenza geografica molto netta da tenere a mente: circa l'83% della produzione mondiale di carne e il 77% del consumo mondiale di carne avviene nei paesi ad alto e medio-alto reddito, rispetto al solo 2% dei paesi a basso reddito. Senza cambiamenti strutturali la produzione di carne e latticini potrebbe aggiungere 0,32 °C di riscaldamento entro il 2050 rispetto ai livelli del 2015. Il nodo centrale è il metano: circa il 31% delle emissioni antropiche globali di questo gas proviene dagli allevamenti, soprattutto dalla digestione dei ruminanti e dalla gestione dei reflui. Le emissioni di questo gas sono aumentate del 332% tra il 1890 e il 2014 e, senza politiche mirate, sono destinate a crescere di un ulteriore 30% entro il 2050. Il paradosso è che, mentre le Nazioni unite prevedono come realistico un taglio del 45% delle emissioni globali di metano entro il 2030 le principali aziende della carne e dei latticini vanno nella direzione opposta. Nessuna delle 45 imprese analizzate nel report sembra avere piani espliciti per ridurre il numero di animali allevati. Molte, al contrario, prevedono un’espansione della produzione, incompatibile con l’obiettivo scientifico di ridurre drasticamente le emissioni del comparto entro i prossimi decenni. Nel 2023 queste aziende hanno macellato complessivamente circa 17 miliardi di polli, 242 milioni di suini e 53 milioni di bovini. Questi ultimi, indipendentemente dal metodo di produzione, sono tra le fonti alimentari con l’impatto climatico e l’uso di suolo più elevati in assoluto. Ma anche carne suina e avicola restano molto più emissive rispetto alle alternative vegetali: a parità di proteine, il maiale genera in media oltre nove volte più emissioni dei legumi, mentre il pollo più di sette volte. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Tra i protagonisti del report spicca soprattutto JBS , il più grande gruppo di lavorazione della carne al mondo per volumi: solo nel 2023 ha macellato circa 3,6 miliardi di polli, 38,8 milioni di suini e 20,8 milioni di bovini. Secondo le stime dello studio, JBS è anche l’azienda più inquinante dell’intero campione analizzato, responsabile da sola di circa il 24% delle emissioni totali delle 45 grandi imprese della carne e dei latticini. Le sue emissioni raggiungono i 241 milioni di tonnellate di CO2, un livello superiore a quello dichiarato dall’81% dei Paesi del mondo. La gran parte dell’impatto climatico deriva dalla carne bovina, che pesa per l’87% delle emissioni complessive del gruppo, soprattutto a causa del metano. Tra le aziende più inquinanti del settore compare anche una multinazionale italiana: al 20esimo posto della classifica figura il Gruppo Cremonini: secondo il report, tra il 2022 e il 2023 l’organizzazione avrebbe generato 14.41 milioni di tonnellate di emissioni. “In un recente studio, io e i miei colleghi ricercatori, guidati dalla dottoressa Helen Harwatt, abbiamo chiesto a oltre 200 scienziati del clima ed esperti di alimentazione e agricoltura, metà dei quali ha redatto rapporti dell'IPCC, quali sforzi sarebbero necessari nell'agricoltura animale per rispettare gli accordi di Parigi”, ha scritto nella prefazione del report Paul Behrens, professore all’università di Oxford, esperto in clima, energia e sistemi alimentari. Gli scienziati intervistati da Behrens suggeriscono che le emissioni globali del bestiame dovrebbero raggiungere il picco quest'anno e poi essere ridotte del 61% entro il 2036, con riduzioni più rapide e significative nei paesi a reddito più elevato. Inoltre, l'85% ha affermato che è necessario un cambiamento nelle abitudini alimentari verso un minor consumo di alimenti di origine animale, in particolare nei paesi ad alto e medio reddito. Ad esempio, il passaggio a una dieta prevalentemente ricca di vegetali nei paesi ad alto reddito ridurrebbe le emissioni alimentari di circa il 61% e consentirebbe di recuperare un'area grande all'incirca quanto l'Unione europea. “Se quest'area fosse restituita alla natura, il terreno potrebbe assorbire circa 14 anni di emissioni agricole globali. Date le dimensioni di queste opportunità, anche piccoli cambiamenti nelle abitudini alimentari possono avere conseguenze significative”, ha concluso Behrens.

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Roberta Cavaglià