“Non c’è verde senza pace”: una conversazione su Clima e guerre

Come si fa a parlare di azione climatica con le guerre in corso? Se lo chiedono a Bonn, in Germania, dove sono in corso i negoziati intermedi in vista della prossima conferenza Onu che si terrà in Brasile a novembre. Il CAN, la più importante rete internazionale di movimenti, parla di “un’illusione pericolosa”. Cioè credere di affrontare i cambiamenti climatici ignorando che fuori dalle stanze “il mondo sta bruciando”. Se ne parla a Londra, dove in questi giorni si tiene la Climate Action Week con eventi sparsi in tutta la città. In uno di questi appuntamenti, l’Energy Tech Summit organizzato da Octopus Energy, abbiamo incontrato Areeba Hamid, direttrice esecutiva di Greenpeace UK. Allora, come si fa a parlare di Clima in tempo di guerre? È una situazione devastante a livello umanitario. Ci tengo a ricordare che, come organizzazione con ‘pace’ nel nome, siamo anche pacifisti. Non pensiamo sia possibile avere il ‘verde’ senza la ‘pace’. Non ha senso avere cieli puliti e fiumi limpidi se cadono bombe su un Paese. Quindi noi facciamo pressione su entrambi i fronti. Anche perché c’è un legame tra i combustibili fossili e queste guerre. Quale? Ciò che sta accadendo tra Iran e Israele sta facendo salire i prezzi del petrolio. E questo avrà conseguenze gravi sulle nostre bollette, ma anche sull’industria e sull’economia. È anche vero che alcune compagnie che trivellano al largo dei territori occupati stanno costruendo nuovi impianti di petrolio e gas: una situazione che andrebbe regolamentata. E se potessimo porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili, forse potremmo anche contribuire a porre fine a queste guerre, che sono guerre sulle risorse. Al di là delle guerre, il clima sembra sia sparito dai discorsi dei leader politici. Come mai? Non so se sia scomparso. Penso che sia diventato più controverso forse più polarizzante, come abbiamo visto negli Stati Uniti. Qui nel Regno Unito non siamo affatto a quel punto. C’è un forte consenso: l’idea che il cambiamento climatico è reale, sta accadendo e occorre agire. Alcuni politici stanno cercando di rompere questo consenso, ad esempio facendo credere che l’azione per il clima faccia aumentare le bollette, cosa che non è affatto vera. Perché lo fanno? Penso che ciò accada perché ci sono degli interessi specifici dietro. Che li sostengono. Sappiamo che il partito Reform Uk, ad esempio, ha ricevuto fondi da alcune grandi compagnie petrolifere. Come stanno i movimenti per il clima? Penso che sia un ecosistema sano, ogni giorno nascono nuove organizzazioni. Alcune diventano popolari, altre meno. Credo che il movimento per il clima sia in salute. Chiede sempre di più. È diventato mainstream, ed è qualcosa che ci dà ottimismo, non preoccupazione, perché sempre più persone sono d’accordo con noi. E credo che ci sia ancora tutto da giocare. Da giocare è anche la partita per la leadership politica sul Clima, adesso che gli Stati Uniti hanno abbandonato la partita. Toccherà alla Cina o al Regno Unito prendere questo ruolo in vista della Cop30 in Brasile? Non penso sia una scelta tra l’una e l’altro. La Cina sta installando energie rinnovabili a una velocità e scala mai viste prima ma abbiamo bisogno che smetta di costruire nuove centrali a carbone. Allo stesso tempo, abbiamo bisogno che Paesi come il Regno Unito dimostrino leadership. E se entro la Cop30 saremo pronti ad annunciare l’impegno a non rilasciare nuove licenze per petrolio e gas, allora il Regno Unito sarà in una posizione molto importante a Belém. Potrebbe essere uno dei Paesi industrializzati che sta davvero abbandonando completamente petrolio e gas. C’è quindi un enorme potenziale e credo che esista una possibilità per una leadership congiunta tra UK e Cina, ma anche per l’Europa.

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