“Le balene in trappola hanno gli occhi disperati. Quando le salvi lo capiscono"

“Ho iniziato a occuparmi di mammiferi marini per via di uno spiaggiamento”, ci racconta Antonio Di Natale, oggi Segretario Generale Fondazione Acquario di Genova ed esperto Onu, ma soprattutto sub e appassionato di mare. “Il primo progetto nazionale sui cetacei è stato con il WWF nel 1978; è nato con l’aiuto della marina militare e alcuni musei di storia naturale e da allora si è formata una sorta di comunità nazionale che si occupa di cetacei che raggruppava, in modo più o meno formale, tutte le istituzioni pubbliche e private che hanno deciso di occuparsi di cetacei. Qui c’era chi era impegnato nel recupero di animali morti sulle spiagge, chi con animali affetti da patologie, chi con gli spiaggiamenti… e io mi occupavo di coordinare i salvataggi e gli interventi per gli animali in alto mare. A quell’epoca c’erano ancora le reti derivanti pelagiche utilizzate per il pesce spada, le così dette ‘spadare’ che avevano un impatto importante su tante specie di cetacei. Mentre i delfini quando restano intrappolati in queste reti in genere muoiono per asfissia, perché non riescono più ad arrivare in superficie, i capodogli - essendo più grandi - in genere sopravvivono più a lungo e questo dà loro la possibilità di essere salvati. Insieme alle capitanerie, alla Guardia di Finanza e i Carabinieri, abbiamo messo insieme un sistema di allarme in tempo reale per intervenire e lo abbiamo fatto in moltissimi casi, sempre su base volontaria. Parlo di base volontaria perché quando si interviene su grandi animali che sono stressati e intrappolati, stanchi e doloranti e c’è sempre un grande rischio”. Come funzionano in concreto questi interventi per liberare i cetacei dalle reti? Nella maggior parte dei casi ci si deve immergere, tentare di capire come è intrappolato il cetaceo e poi, tramite tecniche particolari, tranciare il polietilene multi-filamento che costituisce le maglie della rete, che è un materiale in grado di far perdere il filo ai coltelli quindi bisogna lavorare con un team allargato di persone che dalla barca rifanno il filo. Si esce con motovedette grandi, che possono tenere il cetaceo in prossimità della barca e quando serve gommoni che lo circondano. Sono interventi molto complessi, soprattutto per capire da dove iniziare, e a volte durano un’intera giornata o più giorni. Si passano molte ore in acqua, per questo servono squadre di sub che possano dare il cambio a chi ci è rimasto per troppo tempo. Normalmente si lavora in prossimità della superficie, ma a volte è necessario scendere anche a 30-35 mt. Quali sono le difficoltà maggiori? Le reazioni degli animali? La speranza era sempre quella che il cetaceo collaborasse. I cetacei sono animali selvatici, lo dico in senso buono, che hanno un loro mondo, interazioni, rapporti sociali con le prede e con quelli della loro stessa specie. Non con gli umani che, anzi, evitano accuratamente. Quindi bisogna capire in che condizioni è l’animale. Mi sono trovato con una giovane femmina di capodoglio intrappolata al largo dello Stretto di Messina che era già lì da tutta la notte ed era una vera furia. Noi cercavamo di liberarla ma, essendo terrorizzata, lei tentava di scappare vedendo i sub avvicinarsi. In genere però gli animali dimostrano molta pazienza e si fanno liberare e devo dire che quando riescono questi interventi danno molta soddisfazione. Cosa significa “si fanno liberare”? Capiscono che li state aiutando? Tutti hanno capito di essere stati liberati e tutti hanno capito che questi strani esseri umani li avevano aiutati. Tutti. Compreso chi è scappato alla velocità della luce immediatamente dopo la liberazione… Un grosso capodoglio intrappolato fra Salina e Vulcano, dopo essere stato liberato, è rimasto con noi. Era stressato e stanco ma cercava il contatto: mi ha fatto nuotare sul suo dorso per qualche minuto e lo faceva con una tranquillità estrema. Si rendono conto di quello che si fa. Quale è stato l’episodio che ricorda con maggiore stupore? Un capodoglio molto grande, di circa 19 metri, superato il primo giorno di nervosismo e rabbia, dopo che lo avevamo perso e ritrovato dopo una settimana di ricerche ancora più disperato rispetto al primo incontro, si è lasciato aiutare. Non solo aveva una parte della rete che non eravamo riusciti a togliere al primo incontro, ma aveva preso un palamito con gli ami ed era in una condizione pessima. Quindi per primo abbiamo tolto il palamito, ma poi bisognava liberarlo dalla rete, che ormai era completamente attorcigliata alla mandibola che aveva addirittura inciso il labbro per quanto era stretta. A quel punto, se non collabora il capodoglio aprendo la bocca per lavorare all’interno, non si può fare nulla. Ho provato a trasmettere le mie sensazioni di speranza anche a lui: l’ho guardato negli occhi, l’ho accarezzato, poi mi sono avvicinato alla mandibola e lui l’ha aperta per farmi lavorare all’interno. Una dimostrazione da parte sua di grande fiducia. Questa operazione di aprire la bocca per farmi lavorare al suo interno l’abbiamo ripetuta per tre volte, quindi il capodoglio ha capito perfettamente quello che stessi facendo. Capire come un essere così enorme, che non ha mai avuto a che fare prima con un uomo, gli lasci fare una cosa del genere ci deve stimolare molte domande sulla capacità di comprenderci di questi animali. La situazione negli ultimi anni è migliorata per quanto riguarda i cetacei intrappolati? Sì. Dal 2002 queste reti sono vietate e la situazione è decisamente migliorata. Come in tutte le attività umane resta una parte di illegalità che però ora è assolutamente marginale e lo vediamo anche dai casi di animali impigliati che ora sono pochissimi… addirittura ci sono anni in cui non abbiamo proprio segnalazioni.

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