Le acque contaminate sono potabili? I criteri italiani contro i Pfas

Greenpeace ha appena mappato, per la prima volta in Italia, le acque contaminate da Pfas. Che sono composti chimici – estremamente persistenti nell’ambiente e in alcuni casi cancerogeni – impiegati per la lavorazione di oggetti di uso comune di ogni genere: dalle padelle antiaderenti ai detergenti per la casa, fino alla carta igienica e ai tappeti. Una volta dispersi nelle acque finiscono nelle nostre case e, tramite gli alimenti, sulle nostre tavole. E succede quasi ovunque: la campagna “Acque senza veleni” di Greenpeace ha trovato Pfas nel 79% dei campioni di acqua potabile analizzati in tutta Italia. In altre parole, anche le acque considerate “buone” possono essere contaminate da molecole cancerogene. Ma si tratta di una concentrazione tale da mettere in pericolo la nostra salute? Secondo la legge italiana, no. Solo in un comune fra centinaia analizzati da Greenpeace – Arezzo – le acque hanno superato la soglia di Pfas imposta dalla normativa: 100 nanogrammi per litro. Un limite che, però, è molto meno stringente di quello imposto dagli Stati Uniti e da altri Paesi dell’Unione europea per diverse molecole dello stesso gruppo. “La soglia italiana è rischiosa perché ha un grado di libertà molto grande” commenta la professoressa Antonella Profumo, direttrice del dipartimento di Chimica dell’Università di Pavia. Che ci ha aiutato a capire secondo quali criteri le acque, anche se contaminate da Pfas, possono dirsi potabili. Le soglie italiane sono troppo alte? Una premessa: in materia di Pfas, a dettare legge è l’Unione europea e, di fatto, l’Italia ha solo recepito le direttive comunitarie. Che, però, lasciano qualche libertà di scelta agli Stati membri. “La normativa Ue – spiega la professoressa Profumo – valuta i Pfas in due modi e i Paesi singoli possono decidere di utilizzare uno o entrambi i parametri di ‘Pfas totali’ o ‘somma di Pfas’”. Per “somma di Pfas” si intende un sottoinsieme dei “Pfas totali” . Agli Stati membri è riservato il diritto di abbassare il limite per entrambe le categorie, come ha fatto la Danimarca imponendo un giro di vite a 2 nanogrammi per litro . “Se si leggono i numeri come tali è evidente che la soglia fissata negli Usa e in Danimarca, da un punto di vista sia sanitario sia ambientale, nella maggior parte dei casi tutela maggiormente rispetto a quella vigente in Ue e adottata anche dall’Italia – spiega Profumo – Occorre però sottolineare che la soglia degli Stati Uniti è di 4 ng/L solo per il Pfoa e per il Pfos , mentre il limite a 2 ng/L della Danimarca si riferisce alla somma di quattro Pfas: Pfoa, Pfos, Pfna e Pfhxs”. Al di là delle sigle, la traduzione è che le molecole severamente limitate in questi due Paesi sono solo quelle potenzialmente dannose per la salute dell’uomo. Il risultato è che, senza distinzione fra Pfas, qualche rischio in Italia rimane. “Facciamo un esempio – continua la professoressa – Un valore di 90 nanogrammi per litro dal punto di vista legislativo è al di sotto del massimo tollerabile, ma se questo valore fosse dovuto interamente o quasi al Pfoa , il rischio per l’uomo sarebbe sicuramente ben diverso che se fosse dovuto a Pfas non classificati come tali”. Ovvero molto più alto. Rivedere i limiti La conclusione della professoressa Profumo è netta: è “necessario” distinguere fra Pfas cancerogeni e Pfas meno pericolosi e, “sulla base delle conoscenze recenti, rivedere i limiti di legge attuali”. Un punto di vista condiviso non solo dagli ambientalisti di Greenpeace, ma anche dall’Istituto superiore di sanità che, qualche anno fa, aveva consigliato limiti più severi di quelli poi imposti nel 2020 dall’Ue. Senza distinguere fra le molecole, la legislazione in vigore presta il fianco anche a qualche paradosso. Ripartiamo da Arezzo. Il valore registrato da Greenpeace nel comune è di 104 nanogrammi per litro e, dunque, fuorilegge. Ma il Pfos non è stato rilevato e il Pfoa ha fatto registrare un valore di 1,4 ng/L. Tradotto: i Pfas più pericolosi sono ampiamente sotto le soglie europee e le acque aretine sarebbero considerate potabili anche in Danimarca e negli Stati Uniti. Al contrario – come è stato registrato a Vicenza – altre acque hanno valori complessivi considerati sicuri in Italia ma concentrazioni molto alte degli agenti cancerogeni . “Semplicemente – commenta la professoressa Profumo – si dovrebbe non usarli e porre limiti molto severi nelle acque di scarico perché gli impianti di trattamento attuali ne trattengono molto pochi. Queste sostanze vanno quindi sostituite nei processi di sintesi dove attualmente sono impiegate, come per esempio è stato fatto per il Pfoa nella sintesi del teflon”. Acque comunque potabili “La soglia più bassa dovrebbe essere fissata per quei Pfas ritenuti oggi più preoccupanti – chiarisce Profumo – e, sulla base dei risultati della ricerca scientifica sui potenziali rischi per la salute umana associati alla presenza di Pfas nell’acqua potabile, si dovrebbero stabilire valori limite specifici per singolo Pfas”. Così, per esempio, si è mossa l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente. Ma in Italia, senza un monitoraggio capillare delle sostanze inquinanti permanenti più pericolosi per la salute, al momento restano potabili anche acque con alta concentrazione di Pfas cancerogeni. I criteri per le “acque destinate al consumo umano” sono stati aggiornati l’ultima volta da un decreto legislativo del febbraio 2023 che, come sempre, ha recepito una direttiva europea. Ora, però, le voci di un nuovo adeguamento arrivano da più parti: gli ambientalisti di Greenpeace chiedono un “divieto delle sostanze” e pure Ispra ha suggerito alla Commissione bicamerale il raggiungimento dello “zero tecnico”. “Definire limiti per le famiglie di composti è complesso – chiosa la professoressa – ma lo ‘zero tecnico’ è indubbiamente l’obiettivo finale”.

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