Greenpeace, il report dell’organizzazione sull’impatto ambientale dei resi online

Ambiente
Federica De Lillis

Federica De Lillis

L’Ong ha tracciato il percorso di capi acquistati e restituiti con reso online: alcuni hanno viaggiato per oltre diecimila chilometri e attraversato fino a sette Paesi

Hai comprato un vestito online, magari ne hai ordinate due taglie per trovare quella che ti stava meglio, alla fine hai restituito uno degli articoli (o entrambi) al corriere. Che fine ha fatto? Probabilmente ha percorso circa quattromila km dalla spedizione al luogo di destinazione del reso, passando per eventuali altre rivendite e resi. 

Lo rivela una ricerca dell’Ong Greenpeace in collaborazione con il programma tv Report, fatta su 24 capi acquistati online e poi restituiti al corriere: sono stati complessivamente venduti e rivenduti 40 volte e restituiti in media almeno una volta per capo. In 58 giorni di indagine, i km percorsi sono stati in media 4.123, alcuni capi hanno fatto un viaggio di oltre 10 mila km: è come percorrere in macchina la distanza tra Milano e Lecce per 10 volte. 

Gli spostamenti hanno portato alcuni vestiti ad attraversare ben 7 Paesi. 

L’impatto ambientale dei resi online

Come ricorda l’Ong, "l’industria della moda è tra i settori produttivi più inquinanti, un sistema vorace che utilizza enormi quantità di materie prime: soltanto nell’Unione Europea il consumo di prodotti tessili risulta il quarto settore per impatti su ambiente e clima, il terzo per consumo d’acqua e di suolo. Ogni anno nell’UE vengono gettati via 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili, circa 12 kg a persona". 

Nel caso dei resi online effettuati dal team di Greenpeace, il percorso di un capo ha generato mediamente 2,78 kg di CO2 equivalente, con picchi di 9 kg in casi di vestiti che partivano dalla Cina, il 16% delle emissioni deriva da plastica e cartone usati per la spedizione. Prendendo come esempio l’impatto di un paio di jeans, il percorso, dall’ordine al reso, comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di CO2.  La maggior parte dei capi analizzati (58%) risulta ancora invenduta o lasciata nei magazzini. 

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Dove vanno a finire i vestiti che non vogliamo più 

Nella docuserie “Junk - Armadi pieni”, l’imprenditore della moda etica e sostenibile Matteo Ward ha visitato sei Paesi (Cile, Ghana, Bangladesh, Indonesia, India e Italia) per mostrare come la merce che in Occidente non vogliamo più arriva di frequente nei Paesi più poveri del mondo, in balle vendute all’ingrosso. Alcuni vestiti vengono rivenduti, altri ridotti in stracci per essere riutilizzati attraverso procedimenti che impiegano sostanze chimiche tossiche, ma il viaggio di molti capi spesso si conclude in discariche a cielo aperto che avvelenano l’ambiente e la popolazione. 

 

Le aziende contro i servizi gratuiti 

Diversi brand stanno iniziando a scaricare i costi economici dei resi con corriere sui consumatori, accade così per 8 rivenditori su 10 nel Regno Unito, mentre negli Stati Uniti i resi postali possono costare anche sette dollari.

In Italia il 20% dei nostri capi acquistati online viene restituito. A gennaio i grandi rivenditori hanno fatto sapere che intendono rendere a pagamento il reso anche nel nostro Paese, soprattutto perché la procedura è costosa per le aziende. 

 

Come ridurre i resi online

Restituire un vestito che non ci piace o non ci sta bene è un diritto garantito dal Codice del consumo, ma il modo in cui esercitiamo tale diritto ricade nell’ambito della responsabilità di ognuno e ognuna verso il Pianeta. 

Andare direttamente in negozio per provare i vestiti, ordinare solo la taglia che sappiamo ci starà bene e magari chiederci se davvero abbiamo bisogno di un nuovo paio di jeans potrebbero essere passi utili a ridurre questa abitudine dannosa. 

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