Google, un anno di diritto all’oblio. I DATI

Mondo

Nicola Bruno

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Lo scorso maggio 2014 l'Ue obbligava il motore di ricerca a rimuovere i risultati “inadeguati o datati”. Da allora Big G ha valutato oltre 250mila richieste. Ma per gli esperti non basta: serve maggiore trasparenza.

Oltre 250.000 richieste relative a circa 930.000 link. E’ questo il “bilancio” del primo anno di vita del cosiddetto “diritto all’oblio” su Google, dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea che a maggio 2014 ha obbligato Big G a predisporre un meccanismo di rimozione dei contenuti “inadeguati, irrilevanti, eccessivi o datati” e quindi in conflitto con il diritto alla riservatezza de cittadini europei. 

In questi dodici mesi, Google ha dapprima predisposto un modulo online per inviare la propria richiesta di rimozione e poi ha creato un gruppo interno incaricato di decidere quali link cancellare e quali no. La sentenza della Corte Europea ha infatti imposto l’obbligo di rimozione a Google (e a gli altri motori di ricerca), ma non è entrata nel merito delle modalità per cui una richiesta possa essere accettata o meno. Per questo motivo, come spiega il Wall Street Journal, ogni mercoledì la divisione europea del motore di ricerca organizza una serie di meeting interni con giuristi, ingegneri, manager e consulenti esterni (nel caso siano richieste particolari competenze) per prendere una decisione sulle migliaia di richieste in arrivo.

Come si vede dal grafico sotto, il numero di richieste non accettate supera quelle per cui poi si procede alla rimozione di un link. Restano poi forti differenze tra i principali paesi europei: in Francia e Germania vengono rimossi quasi 1 link su 2, mentre in Italia solo 1 su 4.



Maggiore trasparenza - Proprio in occasione del primo anniversario dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea, un gruppo di 80 studiosi e ricercatori ha condiviso una lettera aperta per chiedere a Google maggiore trasparenza su quali sono i criteri in base ai quali una richiesta viene accettata oppure no. Fino ad ora Google si è limitata a pubblicare report periodici con il numero aggregato di richieste ricevute per paese, i 10 siti maggiormente coinvolti e alcuni casi esemplificativi (circa 40) di contenuti rimossi. Ma gli autori della lettera aperta chiedono ben di più: “Vorremmo sapere quale tipo di informazione viene frequentemente rimossa (ad esempio: questioni di salute personale?) e quale invece no (ad esempio, una personalità pubblica), in che proporzioni e in quali paesi (…) La sentenza ha di fatto creato una partnership tra Google e gli stati europei per trovare un punto di equilibrio tra il diritto alla privacy e il diritto a essere informati. I cittadini hanno il diritto a sapere come la giurisprudenza si sta evolvendo. Speriamo che Google e tutti gli altri motori di ricerca decidano di aprirsi di più su questo argomento”.

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