La Silicon Valley è ancora la vera capitale mondiale del tech?

Da capitale mondiale del tech a prima provincia dell’impero? La Silicon Valley, coincidente con la valle di Santa Clara che lambisce San Francisco, oggi deve fare i conti con un mondo che sta diventando sempre più policentrico. Negli ultimi anni l’ombelico dell’innovazione ha trovato nuovi baricentri su cui espandersi e, anche se la Bay Area continua a esercitare un’attrattiva imprescindibile, l’asse dei capitali e dei talenti si è spostata altrove: ha fatto capolino ad Austin e Miami, rimanendo negli States, ma ha anche attraversato l’oceano per consolidare gli avamposti di Parigi e di Tel Aviv, oltre a crearne di nuovi in India e in Cina. Ecco perché la vera domanda da porsi non è più se la Silicon Valley sia ancora la capitale globale del settore tech, ma che tipo di capitale sia diventata: la valle delle Big Tech non è più una capitale sovrana, ma somiglia piuttosto al nodo principale di una costellazione di hub in cui si alternano competizione e collaborazione, mentre i flussi economici sono impegnati con la rivoluzione dell’IA. Come spesso accade, la rivoluzione è nata in casa: oggi nella Silicon Valley il fortunato ciclo dei social e delle app per ogni cosa sta venendo sostituito dalla stagione di quello che il New York Times ha definito “hard tech”: chip, data center, robotica, infrastrutture energetiche per l’intelligenza artificiale. Uno shift che porta con sé cambiamenti sul piano culturale e forse anche antropologico: dalle grandi visioni che cambiano il mondo, la Valley passa a startup di semiconduttori e piattaforme di calcolo su misura, cedendo un po’ del suo allure immaginifico in favore di un approccio ingegneristico più duro, appunto. Ma oggi assistiamo anzitutto a un riallineamento delle catene globali: la guerra commerciale USA-Cina, le restrizioni all’export e i nuvoloni neri dei dazi sulle piattaforme digitali cambiano dove si investe, e con quali margini operativi. Nel primo semestre di quest’anno i finanziamenti alle startup statunitensi hanno riguadagnato terreno, sospinti dal vento dell’IA, ma i round sono sempre più selettivi, e di conseguenza gli startupper che “ce la fanno” risultano sempre meno. Questo, tradotto nella prospettiva dei founder, significa che le spese aziendali per emergere si dilatano, e i luoghi che permettono di contenerle – almeno un po’ – guadagnano vantaggio competitivo. Prendete Austin, in Texas, che di questo fenomeno è l’esempio più lampante: una città con costi più bassi rispetto a quelli notoriamente esplosi della California, una linea diretta con le università solida e oliata, e un ecosistema di startup che garantisce volumi di raccolta robusti e valorizzazioni crescenti. Per tante startup l’hub texano funziona da “officina”, con tempi di esecuzione rapidi e meno cavilli regolatori rispetto a quelli della Silicon Valley. Per Miami si può fare un discorso in parte simile: la metropoli della Florida ha catalizzato centinaia di milioni di investimenti a trimestre, dando vita a cluster competitivi nei settori fintech, healthtech e crypto. Tutto questo ha generato una sorta di migrazione interna nel mondo del tech, con riorganizzazioni che hanno portato a sedi separate e una rete di avamposti complementari a quelli della Bay Area. La Silicon Valley d’Europa, invece, si chiama Parigi. Secondo i dati della società specializzata Dealroom, la capitale francese ha superato Londra negli indicatori chiave dell’ecosistema startup, diventando l’unica città non statunitense nella top five di settore. La spinta per il sorpasso viene dall’AI, dall’hardware e dai grandi poli come Station F, con realtà francesi – da Mistral a Poolside – capaci di attrarre capitali e talenti internazionali. A Est, l’India ha acceso un faro su Bangalore, nel sud del Paese. Nel Global Startup Ecosystem Report di quest’anno, la megalopoli di 12 milioni di abitanti è salita di sette posizioni, fino alla 14ª delle città più startup-friendly del mondo, spinta dall’aumento dei seed, da alcune IPO di peso e dalla sua rapida crescita nel machine learning. Il mercato indiano resta di importanza relativa, ma unendo la disponibilità di ingegneri specializzati, il costo del lavoro competitivo e la domanda interna, si ottiene l’entrata di diritto di Bangalore nel gruppo dei pochi hub capaci di contendere talenti alla California. Sempre in Asia, invece, la Cina ha optato, come da tradizione, per consolidare un suo percorso autosufficiente. Mentre Washington ostacola le forniture di chip avanzati a Pechino, la Cina promuove la formazione di un robusto ecosistema AI domestico, che passa dagli acceleratori alle piattaforme di addestramento dei modelli. Il recente rally in Borsa di produttori e foundry cinesi seguito all'annuncio del nuovo modello di DeepSeek segnala che il mercato crede alla sostituibilità delle tecnologie occidentali. E infine c’è il Golfo Persico, a sua volta un grande magnete globale di infrastrutture e capitali per le intelligenze artificiali. Emirati e Arabia Saudita in tempi recenti hanno messo sul piatto intese e annunci miliardari per la costruzione di strutture, data center e venture dedicati: dai progetti di mega-campus ad Abu Dhabi alle linee di finanziamento che promuovono passi avanti sui semiconduttori e sul cloud, l’obiettivo degli Stati del Golfo è diventare hub energetici e computazionali per i modelli IA di prossima generazione. E ci stanno riuscendo, anche se restano nodi sulla disponibilità dei talenti e sulla ricerca; il segnale mandato da EAU e Arabia è chiaro: l’IA può essere il perno non solo di una politica industriale, ma anche della diplomazia economica. Chiamare la Silicon Valley “capitale globale” ha ancora senso? Beh, forse sì, pensando che le capitali possono essere federali: la Bay Area mantiene un primato di rete di know-how e guida l’agenda tecnologica del mondo, ma il baricentro operativo del tech internazionale si è allargato. Oggi i team si distribuiscono geograficamente, i round di finanziamento si chiudono con destinazioni nuove e il mappamondo premia gli hub che sanno combinare tre ingredienti: costi e tempi di esecuzione competitivi, prossimità a infrastrutture di calcolo e politica industriale coerente. È in questo campo che Austin e Miami crescono per insidiare il primato di San José, che Parigi incalza Londra e che Bangalore si affaccia al mondo. Per chi fonda un’azienda tecnologica e per chi ci scommette i suoi soldi, la sfida oggi, più che scegliere una capitale univoca, diventa imparare a muoversi dentro un contesto multipolare, dove il vantaggio sta nel saper unire i puntini dell’innovazione su una carta geografica globalizzata.

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Davide Piacenza