L’indifferenza non si nota solo a Natale e non è iniziata coi maranza

I maranza oramai sono un nome. Quando qualcosa prende un nome comincia a esistere e, magari, diventa un fenomeno, senza tuttavia smettere di essere solo un nome, la stazione alla quale di solito, purtroppo, ci si ferma. Eppure, diciamocelo con franchezza, dare un nome rasserena, mette ordine. Consolatorio. Il fatto è che se diamo il nome a un nuovo virus, non smetterà di aggredirci. Se poi il nome è esotico, come accade per molti fenomeni nuovi, fa ancora più effetto. Se all’isolamento sociale -che nasconde malesseri esistenziali da esplorare uno ad uno- diamo un nome giapponese, è fatta. Leggo le parole della madre il cui figlio è stato aggredito a Milano nelle scorse ore, giustamente sostiene che i maranza sono diventati una vera emergenza sociale, difficile darle torto, ma, con grande lucidità, con il cuore della vera madre, vede oltre, in particolare denuncia un’emergenza sociale molto più grave dei maranza, ma che nessuno registrerà, perché è carica di domande fastidiose. Si chiama indifferenza ed è il vero problema. Un problema mortale. “Durante l’ora da incubo vissuta dai nostri ragazzi, nessuno – ma proprio nessuno – li ha aiutati. Alle otto di sera, nel pieno centro di una città affollata di persone intente a fare acquisti natalizi”. Eccola la madre di tutti i disastri. Fenomeno nuovo, l’indifferenza, potremmo ingannarci così. Le cose, invece, stanno in modo diverso ma noi sorvoliamo, perché chi è senza risposte la butta in politica, che a sua volta vive una commedia parallela alla realtà, senza mai incrociarla, attenta com’è a compiacere i suoi clienti. Come accade col panettone, i clienti meno attenti, la maggioranza, cercano soprattutto confezioni accattivanti. Se è vero che esiste il fenomeno dei maranza è lecito domandarsi come pensiamo di affrontarlo, già perché esecrarlo non basta, alla fine pure i carnefici, in questa brutta storia, sono vittime. Difficile da digerire ma è così. Chi vive ai margini diventa una centrale di risentimento, il suo comandamento, l’unico possibile, è “piuttosto che perdere, visto che per me non c’è possibilità, faccio perdere gli altri”. È sempre questo il titolo del suo romanzo, spetterebbe a chi guida le comunità aiutarli e a trovarne uno diverso, invece esecrano, a loro basta. Del resto, perché uno dei maranza dovrebbe agire diversamente, non sente di avere alcunché da difendere o da perdere, se tutto crolla meglio per lui. Se quello dei maranza è un fenomeno che possiamo guardare in faccia, quindi fronteggiare, se ne abbiamo le capacità, l’indifferenza è subdola e permanente. Nessuno pensa di esserne affetto, ma è la vera emergenza, a cominciare dal secolo scorso, e diventerà sempre più grave, perché funziona con la stessa logica dell’entropia in Fisica, aumenterà sempre più. Ma, rassegniamoci, non è iniziata ieri. Nel 1990, in primavera, ero a Milano per lavoro. Nei pressi della stazione centrale, un nugolo di persone in cerchio sembrava assistere a uno spettacolo di strada. Mi sono avvicinato. Due uomini sui quarant’anni se le stavano dando di santa ragione, pugni come flagelli, schizzi di sangue intorno. Tutti se la ridevano. Mi sono lanciato in mezzo ai contendenti, che forse aspettavano solo che qualcuno li separasse, avevano bisogno di un pretesto per non perdere del tutto la faccia. Quando siamo rimasti da soli, si perché lo spettacolo era finito, avevo chiesto loro perché si stessero martoriando. Uno era muratore, l’altro tassista. L’area dove di solito stazionavano i taxi era occupata dal cantiere aperto per i mondiali di calcio. Al povero conducente era scappata la pipì, ma le auto, senza i soliti spazi, non si potevano abbandonare, e lui l’aveva depositata nei pressi del cantiere. Lo avrebbe fatto chiunque. È bastato questo a innescare un piccolo dramma territoriale. Ho imparato da bambino e da ragazzo a intervenire in questi casi, nel mio quartiere popolare. I litiganti si separano per impedire che si facciano del male, perché sono persone come noi, con una famiglia che li aspetta. Non sapevo se avessero un nome suggestivo quei pugili estemporanei, come i maranza, mi bastava sapere che si trattava esseri umani. Ora ci accontentiamo del nome, così possiamo metterli nello scaffale giusto, in ordine alfabetico. Non ci vuole molto bastano un esperto e un magazziniere. Ma la realtà è più seria, molto più seria, e ci siamo di mezzo tutti. Un’insegnante mi racconta che nella sua terza media ci sono 22 ragazzi, di cui 18 di origini straniere e 4 italiani, ma non cade nella trappola dello scaffale. “Dico ai miei colleghi riottosi che senza quei ragazzi saremmo tutti senza lavoro. Noi e le nostre famiglie dovremmo ringraziarli ogni santo giorno. È nel nostro interesse farli evolvere, renderli fieri di essere nostri concittadini”. Certo, le città sono diventate pericolose, ma nelle stesse città le famiglie sono devastate da conflitti che travolgono i figli e rendono l’avvenire incerto perché un nucleo fragile incrementa i naturali sentimenti di inadeguatezza di tutti, mettendoli gli uni contro gli altri. Se vogliamo continuare a tirarci addosso palle di neve facciamolo pure, magari con la stucchevole pausa natalizia, il regno dei buoni, ma non illudiamoci di risolvere i problemi appena accennati, quello dei maranza e quello dell’indifferenza, chiamandoli per nome. Abbiamo bisogno di altro, non possiamo più accontentarci di mestieranti che cercano di aprire botteghe nel cuore dei cittadini, alimentandone paure, risentimenti e mettendoli in conflitto, perché in un mondo bipolarizzato tra buoni e cattivi basta anche un incapace a occuparsi della collettività, mentre in una società popolata di esseri umani, ossia di eccezioni, servono guide illuminate e preparate, non sono ammessi improvvisatori. In alternativa ci sarà il trionfo dei nomi e delle diagnosi. “Papà vorrei un bicchiere d’acqua”. “Tesoro, la tua si chiama sete, non preoccuparti”. Ecco, basta un nome. O forse no. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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L’indifferenza non si nota solo a Natale e non è iniziata coi maranza

Domenico Barrilà